La realizzazione degli ospizi lungo la gran parte dell’arco alpino rappresenta la chiusura definitiva del buio e selvaggio capitolo medievale, un mondo dominato da silenzi e paure, da leggende e magie che peraltro ancora oggi sono bene impresse nelle culture delle vallate più isolate o meno frequentate. Le Alpi, nel medioevo, da muro diventano ponte di collegamento e i valichi ben rappresentano plasticamente questo momento. Tra valloni e ghiacciai, inizia l’età dei pellegrinaggi e lo sviluppo dei cammini romei che appunto grazie agli ospizi trovano la loro ormai millenaria fortuna. Sono particolari luoghi di accoglienza che hanno concorso a formare l’identità europea e a facilitare gli scambi fra nord e sud delle Alpi prima di venire sostituiti da locande e pensioni a pagamento.
Ci fu un’epoca in cui, per chi affrontava i viaggi più faticosi e rischiosi, alloggiare in un ospizio era quanto di meglio si potesse augurare. Perché l’ospizio, fedele alla radice latina della parola hospes, ospite, era proprio un edificio voluto per dare alloggio (“ospitare”) a forestieri e pellegrini, mettendoli al riparo da lupi e briganti, o quanto meno dal freddo e dalla fame. Avveniva nel Medioevo, quando un gran numero di “domus hospitales” sorsero lungo gli ardui percorsi che collegavano i due versanti della catena alpina. Gli ospizi del Gran San Bernardo, del Sempione, del Gottardo sono più o meno noti a tutti, anche dopo che i trafori stradali e ferroviari li hanno isolati in cima a passi ormai percorsi solo dai pochi che non hanno fretta. In realtà, però, dal Piemonte al Friuli, dalla Svizzera all’Austria, sulle vette e nelle valli, piccoli come rifugi alpini o grandi come abbazie, gli ospizi sorti nel Medioevo erano centinaia, e con una caratteristica che oggi verrebbe apprezzata dai tanti che percorrono il Cammino di Santiago o la Via Francigena: chi vi si fermava a dormire e a mangiare non pagava un soldo. Sant’Agostino, del resto, lo aveva ben raccomandato: “Praticate l’ospitalità, attraverso la quale si giunge a Dio. Accogli l’ospite del quale tu sei compagno di strada, dal momento che siamo tutti pellegrini”. E san Benedetto non era da meno: “Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo”.
Si scopre poi che il grande “padrino” della diffusione degli hospitia sull’arco alpino sarebbe stato niente meno che Carlo Magno, mosso tanto da ragioni religiose quanto politiche: a lui la leggenda ha attribuito la fondazione di parecchi monasteri alpini, fra cui San Pietro al passo dell’Aprica e soprattutto l’abbazia benedettina nella svizzera Val Müstair o Val Monastero nei Grigioni, dove il re franco transitò, diretto a Roma per essere incoronato. L’ex abbazia, sorta in posizione strategica fra Engadina, Val Venosta e Valtellina, conserva straordinari affreschi carolingi del IX secolo (fra cui una delle prime rappresentazioni di Giudizio universale) che gli hanno valso l’inserimento nel Patrimonio Unesco.
Numerosissime in quegli anni le strutture sorte nella diocesi ora elvetica di Coira, ma anche in Piemonte, dove l’abbazia della Novalesa fu fondata sulla strada del Moncenisio già nel 726. Erano proprio le diocesi e i monasteri, in genere, a realizzare più piccole strutture di accoglienza, disseminate lungo i percorsi alpini. A gestirle erano in genere religiosi, monaci o canonici regolari, seguaci in genere delle regole di sant’Agostino o di san Benedetto. Dall’XI secolo in poi in alcuni casi si aggiunsero anche conversi e converse, ovvero laici che seguivano una regola religiosa. E dal XII secolo diverse case alpine furono aperte da ordini religiosi nati nel clima delle Crociate, come gli Ospitalieri di San Giovanni in Gerusalemme, gli Ospitalieri di sant’Antonio e i Cavalieri Teutonici: loro obiettivo primario era, ovviamente, rendere più agevoli e praticabili i pellegrinaggi verso Gerusalemme e la Terrasanta.
Sin dall’inizio, del resto, gli ospizi alpini erano sorti lungo le direttrici dei tre grandi pellegrinaggi medievali, quelli che si dirigevano a Santiago de Compostela, a Roma e a Gerusalemme. Una motivazione religiosa per la quale chi costruiva o finanziava chiese e luoghi di accoglienza avrebbe avuto diritto alla vita eterna, come attestano diversi antichi documenti. Un merito, verrebbe da dire, centuplicato per chi s’industriava a rendere valicabili passi alpini dov’era davvero facile lasciarci la pelle, come attestava nel 1402 il gallese Adam di Usk nel resoconto del suo periglioso viaggio verso Roma: “Attraverso il monte Gottardo e l’eremitaggio sulla cima, trasportato su un carro tirato da buoi, quasi morto per il freddo e la neve, con gli occhi bendati per non vedere i pericoli del luogo, sono giunto a Bellinzona in Lombardia la vigilia della Domenica delle Palme”.
Spunti tratti dalla recensione della mostra “Hospitia. Mille anni di accoglienza e ospitalità sulle Alpi”. Mostra a cura dell’Associazione culturale Ammira di Varese presso il Touring Club di Milano.
Foto: l’abbazia benedettina di San Giovanni in val Monastero, canton Grigioni, Svizzera.