La dieta del certosino è vegetariana, non viene infatti mai consumata carne, anche se si è malati. È raccomandata la frugalità, ma è proibita l’astinenza dal cibo. Durante i giorni feriali i pasti sono distribuiti ai monaci attraverso lo sportello a lato della porta d’ingresso della cella, nei giorni festivi il refettorio accoglie tutta la comunità e il pasto è consumato nel più assoluto silenzio interrotto solo dal confratello lettore a mensa che legge passi delle Sacre Scritture. Il bianco, simbolo di purezza, domina anche la mensa certosina: pesce, latte, formaggi. La cena è frugale, il venerdì è previsto il digiuno, vengono distribuiti solo pane e acqua. Se la comunità è abbastanza grande da poterselo permettere, gli ortaggi, la frutta, il pane, l’olio e il vino sono prodotti dai monaci stessi.
In ogni certosa, uno spazio considerevole era occupato dalla “spezieria”, un vero e proprio laboratorio per la trasformazione delle erbe officinali quasi sempre coltivate e raccolte intorno al monastero. Il monaco speziale e i suoi assistenti, dopo una accurata selezione e classificazione delle erbe provenienti appunto dal vicino “giardino dei semplici”, provvedevano alla pulitura, macerazione, spremitura, essicazione, decozione, e in alcuni casi distillazione delle erbe. Lavoravano e studiavano intensamente tra alambicchi e mortai, bilance e fornelli e ottenevano tinture, distillati, decotti, unguenti tisane, cataplasmi, sciroppi, elisir e rimedi per ogni male.
Inizialmente gli speziali usavano i loro preparati solo per curare i monaci, ma per la loro riconosciuta competenza e abilità divennero dispensari farmaceutici per gli abitanti limitrofi ai monasteri, per i poveri e i pellegrini di passaggio. I certosini, ma più in generale tutti i monaci che si dedicarono a queste attività come i benedettini, sono da considerarsi gli antesignani della moderna scienza farmaceutica e parafarmaceutica, ma anche della cosmesi e di qualsiasi prodotto destinato al benessere della persona.
Tra gli elisir di lunga vita di provenienza monastica spicca senza ombra di dubbio il Chartreuse.
Il Chartreuse, come è facile intuire dalla denominazione, è un liquore prodotto dai monaci certosini della Grande Chartreuse in Francia.
I certosini sono i soli a conoscere la ricetta di questo liquore dal sapore e dall’aroma caratteristici, tra il dolce, lo speziato e il pungente, definito dai primi monaci che l’hanno prodotto nel 1605, “elisir di lunga vita”.
Il Chartreuse richiede l’impiego di ben 130 erbe ed ha un grado alcolico di 71° nella versione storica, mentre i prodotti oggi in commercio sono tipicamente di due gradazioni più basse (45° e 55°), la versione più pregiata è quella invecchiata dodici anni. La ricetta di questo “elisir” è rimasta sempre segreta, nonostante le ricerche dei moderni metodi d’indagine.
Il liquore è servito liscio, con ghiaccio, oppure aggiunto ai cocktail. In alcune ricette sono sufficienti poche gocce di Chartreuse per dare un sapore e un profumo inconfondibile.
Nel linguaggio comune è nota l’espressione “lavoro certosino”, per intendere un’attività eseguita con solerzia e tanta pazienza. La tarsia alla certosina è una particolare tecnica di intaglio e intarsio del legno che si può definire l’apoteosi della pazienza e della meticolosità certosina. Probabilmente di origine araba, questa tecnica si diffuse in Italia tra il XIV e il XV secolo nei monasteri certosini. Per realizzare questo tipo particolare d’intarsio è necessario suddividere il disegno definitivo in tante tessere e con un seghetto a traforo realizzare il motivo impresso in ogni tassello. Bisogna tenere la lama del seghetto perfettamente perpendicolare al legno, per evitare imprecisioni, mentre gli effetti di chiaroscuro si ottengono alternando legni chiari e scuri e ombreggiandoli annerendo il legno con un ferro arroventato. Le tessere ottenute devono combaciare perfettamente su una base di legno precedentemente preparata. Se l’opera è eseguita ad arte, il disegno finale, come un puzzle, si compone senza l’uso di colla ma con un perfetto incastro dei tasselli.
Questa tecnica richiede un’accurata conoscenza dei materiali, la padronanza degli strumenti, un elevato grado di precisione, ma soprattutto tanta pazienza! Meglio se certosina!
I monaci intarsiavano piccoli cassettoni e cofanetti ma, dai più esperti, fu utilizzata anche per decorare gli scranni del coro sui cui sedevano i monaci durante le funzioni liturgiche, o gli armadi delle sacrestie.
Immagine: il coro della Certosa di Pavia
Fonte: Claudia Colucci, Monaci e conventi, Edizioni del Baldo, Verona, 2015.