La Valle di Susa, da sempre terra di transito e di passaggio, vide senza dubbio, nel VII secolo, prima della colonizzazione benedettina, il diffondersi della religiosità semplice e incisiva della predicazione dei monaci celti. Difatti, a partire dal VI secolo, dall’Irlanda , i monaci, a gruppi di dodici, iniziarono a lasciare la fredda terra d’origine per sparpagliarsi in tutta Europa, secondo i canoni di quello che venne definito “ Martirio Bianco” ossia il salpare verso l’ignoto ( il deserto bianco), abbigliati con le classiche vesti in lana bianca, alla ricerca di nuove lande solitarie e inesplorate, per non fare più ritorno in patria e fondare sul continente europeo i monasteri, fari di cultura e di civiltà. E’ dunque verosimile ritenere che la Valle di Susa non sia rimasta estranea alla loro predicazione, tanto più che, ancora sul finire del XIII secolo, sono attestati di passaggio al valico del Monginevro “ Irlandi, Normandi, Pictavi et Scotii et ceteri alii…” ai quali veniva garantita l’ospitalità. I monaci portarono con sé anche la modalità privilegiata di relazionarsi con la natura, l’abbondanza di taumaturgia e il rispetto per gli animali e le piante che a quei tempi popolavano il paesaggio europeo.

La biografia di San Colombano, riporta un numero impressionante di episodi che vedono protagonisti il Santo e gli animali. In più di un aneddoto, San Colombano è associato ad un orso, sia quando con dolcezza ordina ad un orso di cedergli il riparo in una grotta, ottenendolo, sia quando induce un altro orso a non rovinare la pelle di un cervo ucciso dai lupi, per poterne ricavare dei calzari.

I molti santi che sin dall’età merovingia e per tutto il Medioevo domano l’orso, costituiscono l’immagine archetipica del “ santo più forte della bestia più forte, che riesce a farsi obbedire e qualche volta aiutare dalla belva non con la forza fisica o delle armi, bensì con quella della parola”.

E’ interessante notare come il mito dell’orso nelle vallate alpine, compresa la Valle di Susa, sia piuttosto presente e sopravviva tuttora in forme folkloristiche in alcune feste popolari collegate con la festività religiosa locale. Ad esempio il fatto che ad Urbiano il “ ballo dell’orso” con la più bella giovane del paese, avvenga in occasione della festa patronale di Santa Brigida, la prima domenica di febbraio di ogni anno, può costituire un fatto di riflessione. La sovrapposizione non è certamente casuale. Era il periodo dell’anno in cui nell’Europa celtica settentrionale e nordoccidentale, nell’Alto Medioevo, il calendario rurale prevedeva cerimonie ursine, eredi di culti molto più antichi,legati al risveglio dell’orso (l’antico re degli animali prima dell’età carolingia in cui iniziò il processo di demonizzazione nei suoi confronti) dal letargo invernale e al ritorno del sole e della luce, con processioni rituali con torce accese accompagnate da falò propiziatori.

La Chiesa dovette intervenire fissando in quei giorni alcune importanti festività religiose, in modo da sovrapporsi ai riti pagani e da inglobarli: La Presentazione di Gesù al Tempio, la Purificazione di Maria Vergine, la Candelora, oltre che la dedica del I° febbraio a Santa Brigida, patrona d’Irlanda .

Il “ballo dell’orso” di Urbiano, pur essendo un caso isolato nella Valle di Susa, presenta affinità con tradizioni simili, localizzate in zone influenzate dagli antichi rituali nordici.

Che l’orso sia stato un animale conosciuto e diffuso anche nella Valle di Susa è fuori dubbio:” La gente del posto sostiene che sul monte Rocciamelone, come anche sul Moncenisio, viva una gran quantità di animali selvatici: orsi, stambecchi,capre e altri ancora, adatti alla caccia” recita il Chronicon Novaliciense ,libro II, par.V.

Presso tutta l’aristocrazia valligiana fu nei secoli passati consuetudine diffusa quella di pretendere plotae e capita ursorum ( le zampe e le teste degli orsi), dai popolani, come contropartita del diritto di caccia di cui godevano. In particolare, l’orso era l’emblema dei sovrani, prima ancora della classe guerriera. Il letargo dell’orso veniva considerato una morte stagionale da cui l’animale usciva vincitore e rafforzato nel suo incredibile potere di creatura che può morire e risorgere. Non a caso l’orso divenne protagonista delle insegne araldiche medievali e dell’onomastica nobiliare guerriera, particolarmente in Germania e nella Francia meridionale, come metafora della potenza e del coraggio del casato di cui era rappresentante.

L’orso era inoltre una delle prede più ambite nella caccia, più apprezzata perché tra le più pericolose, e quindi, appaganti per il cacciatore.

Nella Grecia classica, è noto il mito della ninfa Callisto, figlia di Licaone, re d’Arcadia: faceva parte della scorta di Artemide di cui divenne la preferita, al punto da fare voto di castità, come la dea. Zeus, invaghitosi di lei, trovò il modo di sedurla con uno stratagemma. Artemide, nello scoprire che ella era stata ingravidata, per l’ira la tramutò in orso. A sua volta Zeus la trasformò nella costellazione dell’Orsa Maggiore: dal mito traspare chiaramente il rapporto tra l’orso e il culto astrale, e tra l’animale e la dea Cacciatrice. Lo stretto connubio tra Artemide – orsa e il “ ballo” di Urbiano fu sottolineato anche dal canonico Natalino Bartolomasi, che analizzando il campo della toponomastica valligiana, riscontrò molteplici riferimenti all’orso e al suo culto: Orsiera, Pian dell’Orso, montagne forse un tempo sacre all’animale divinizzato. In tal caso l’offerta della bella fanciulla all’Orso inferocito di Urbiano potrebbe ricordare il sacrificio delle vergini ad Artemide, signora delle foreste e di tutti gli animali.

E’ indiscutibile, inoltre, il rapporto tra il ballo dell’orso a Urbiano e le feste della Candelora legate al cambio stagionale e alla fertilità della terra: l’animale che si sveglia dal letargo invernale rappresenta il risveglio della natura dopo i lunghi mesi bui e nevosi in cui la vita pare arrestarsi. E’ dal sottosuolo che nasce la vita, così come l’orso esce dal suo anfratto sotterraneo.

Nella Valle di Susa l’ultimo orso fu ucciso intorno al 1820 dagli abitanti di Exilles; si trattava di un esemplare quasi addomesticato, che si era stabilito nella pineta di Montfol, abituato alla compagnia dell’uomo, e fu proprio la sua fiducia nell’essere umano a decretarne l’uccisione a tradimento da parte dei cacciatori.

Oggigiorno rimane soltanto Urbiano a ricordare gli antichi culti dell’orso, ma un tempo la devozione fu molto più radicata. Nella seconda metà del XIV secolo, l’abate di San Giusto, Edoardo di Savoia, ospitava tranquillamente un orso domestico nel palazzo abbaziale di Susa, rifocillandolo quotidianamente con notevoli dosi di cibo, un fatto curioso, ma neanche tanto strano se si pensa che l’orso veniva spesso addestrato come animale da compagnia e che possedere un orso era segno di grande prestigio per il proprietario di un serraglio.

L’interazione pacifica tra l’uomo e gli animali selvatici diminuisce a partire dal Basso Medioevo, quando, sotto la spinta di un rinnovato fervore economico, si impone su scala più ampia il dissodamento dell’incolto, vanno perse la consuetudine e la famigliarità con l’ambiente naturale, tipiche dei secoli precedenti.

A questo punto l’orso e gli altri animali, vengono vissuti come una minaccia per la comunità agricola e il sentimento predominante è l’ostilità e la loro assimilazione al diavolo, al male, che, di volta in volta, assume le fattezze degli animali più “pericolosi”.

Fonte: Segusium n.48 – di Giuliana Giai –

Di Emerenziana Bugnone

Socia Monastica Novaliciensia Sancti Benedicti, volontaria culturale e accompagnatrice.

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