Monaco che beve un calice di vino

– Dall’antichità al 1700 –

Produrre vino è sempre stato il sogno di ogni montanaro: meglio un vinello di poche pretese che non averlo affatto e doverlo acquistare. Nelle fasce superiori della Valle si è prodotto per lo più per autoconsumo, in quelle inferiori, comunque sempre sopra i 700 metri di altitudine, l’esubero ha alimentato flussi di mercato verso altri paesi: in Francia, ad esempio, il vino valligiano era ricercato e rinomato per il pregio qualitativo.

Nel 1996 gli archeologi si imbattono per caso nella più antica giara di vino mai rinvenuta: una missione statunitense, proveniente dall’Università della Pennsylvania, scopre nel villaggio neolitico di Hajji Firuz Tepe, nella parte settentrionale dell’Iran, una giara in terracotta, della capacità di 9 litri, contenente una sostanza secca proveniente da grappoli d’uva: i reperti risalgono al 5100 A.C. Gli studiosi, però, affermano che la bevanda è stata prodotta per la prima volta e forse casualmente, tra 9 e 10.000 anni fa nella zona del Caucaso: una fermentazione accidentale di uva dimenticata in un recipiente.

È comunque accertato che la produzione su larga scala inizia tra il 4100 e il 4000 A.C.: datazione inerente ai ritrovamenti della prima casa vinicola nel complesso delle caverne del comune armeno di Aren.

La Bibbia, nella Genesi (9,20-27) attribuisce la scoperta del processo di vinificazione a Noè: nei giorni successivi al Diluvio Universale pianta una vigna dal cui frutto ottiene del vino che berrà fino ad ubriacarsi.

Nel territorio piemontese la Tavola di Polcevera è la prima testimonianza di un’importante produzione della bevanda. È un’epigrafe che reca la sentenza pronunciata, nel 117 A.C., da Quinto e Marco Minucio Rufo, inviati dal Senato romano per dirimere una controversia tra i Genuates e una comunità dei Viturii: i Langates abitanti il Piemonte meridionale di cui Alba è già un grosso centro urbano. Questi sono condannati a pagare ogni anno un canone di 400 “vittoriati”, oppure la ventesima parte del frumento e la sesta del vino che ricavano dall’uva.

I popoli celtici Valsusini, già prima del contatto con la romanità, producono vini leggeri e dissetanti: Plinio racconta dello stupore dei suoi conterranei nel vedere che viene conservato in gigantesche botti di legno anziché nelle giare. Oltre a lui numerose fonti, tra cui Polibio e Strabone, ricordano la produzione di uva usata sia come frutta, sia per la vinificazione, il cui risultato è considerato dai Romani al limite della bevibilità. Va comunque detto che il vino prodotto, in tutta l’area del Mediterraneo, è molto differente dalla bevanda che conosciamo oggi: a causa delle tecniche di vinificazione e conservazione, soprattutto della bollitura, è una sostanza sciropposa, molto dolce e molto alcolica. Si allunga così con acqua e si aggiungono miele e spezie per ottenere un sapore più gradevole.

Il vino è certamente uno dei loro più importanti articoli di importazione: ne fanno fede i numerosi resti di anfore vinarie provenienti da svariate zone d’Italia, tra cui il Veneto e Ia zona centrale della penisola, ma anche dalla Gallia meridionale. La produzione locale, quindi, non deve essere né abbondante né particolarmente pregiata.

“... E’ però gente molto amante del vino e di ogni altra simile bevanda”: così Ammiano Marcellino, uomo importante delle corti di Costanzo II e Giuliano, li descrive nel suo Res Gestae: si riferisce al suo passaggio in Valle, cioè al IV secolo D.C., ma le sue osservazioni si possono tranquillamente ritenere valide anche per i periodi precedenti. Il vino con la birra, il latte, le erbe aromatiche, il miele, gli ortaggi e la frutta sono per questo popolo ora cibo e bevanda, ora ingredienti, aggiunti a vegetali dai poteri curativi, di medicamenti e pozioni. Sono utilizzati anche come elementi magici: ritorni d’amore e fenomeni di divinazione. Birra e vino, mescolati con la polvere di assenzio diventano, ad esempio, un ottimo dissetante contro la febbre, o un eccellente stimolante dell’appetito, o anche un efficace diuretico. La stessa erba bollita con il vino bianco e bevuta a cucchiaiate durante la giornata cura l’idropisia. La radice, cotta allo stesso modo, così come la celidonia, l’“erba dei porri”, con l’aggiunta di aneto, guarisce gli itterici. Sempre la radice di quest’ultima impastata con cura e applicata localmente con il vino fa cessare quelle che oggi chiamiamo impetigini e il mal di denti.

Talvolta per aumentare l’efficacia dei vari infusi fanno bollire le erbe nel latte o nel vino bianco.

Nell’austera Età Repubblicana Romana il vino, assieme all’olio e al miele, è un semplice condimento. Quello ricavato dall’uva agresta, cioè una vite non innestata, che spesso non giunge a maturazione, secondo quanto scritto da Rutilio Tauro Palladio nel De Rustica è un ingrediente indispensabile in salse che accompagnano carni e pesci e nel Medioevo si diffonderà anche come dissetante: spesso mescolato a latte puro o latte di mandorla per un sapore agrodolce.

Sotto l’Impero c’è invece un impulso alla sua produzione: passa dall’essere un prodotto elitario a divenire una bevanda di uso quotidiano: nel 1867, in Germania, si rinviene la bottiglia di vino “di Spira” datata tra il 325 e il 350 D.C.: la più antica nel mondo ancora chiusa.

Nel più vecchio manuale di gastronomia giunto a noi, i dieci libri del De Coquinaria di Celio Apicio, un compilatore del IV secolo, sono citati vini melati o aromatici. Una resina ricavata da un albero valsusino viene acquistata per molto tempo da Roma per essere sciolta nel proprio vino e garantirne una lunga conservazione: pratica già adottata dai Greci per il vino resinato.

Con il crollo dell’Impero la viticoltura entra in una crisi dalla quale uscirà solo nel Medioevo grazie soprattutto all’impulso dato primariamente dai monaci di San Colombano, ed in seguito dai Benedettini e Cistercensi.

I Monaci Irlandesi di San Colombano introducono, fin dal VI secolo, in tutta la Francia quella che è la vinificazione odierna, già in uso presso le popolazioni celtiche del territorio.

Gli enti monastici cercano di possedere terreni vitati nelle aree a netta aspirazione vinicola per poter disporre di vino schietto e buono sia per gli usi liturgici, sia per il consumo personale dei Monaci: le regole Benedettine e Certosine permettono, una, mezzo litro di vino al giorno ognuno e, l’altra, un generico uso moderato.

Le carte della Prevostura di Oulx dell’XI secolo riportano che vino locale è dovuto all’abbazia. Vino producono le terre donate, all’inizio del secolo, ai Monaci di Novalesa e, verso la metà, a San Giusto. Vigne sono presenti nella Valle Cenischia, molto ombrosa, appartenenti ancora alla Novalesa e a Breme. A Urbiano vigneti sono donati all’abbazia di Oulx che, nel 1088, ne ottiene anche a Chiomonte e a Exilles presso la Dora, a Villar Focchiardo nel 1090, a Gravere e a Rivoli. Quasi tutte in zone dove la qualità del vino è scadente, ma abbondante la produzione che risponde così alle esigenze locali di autoconsumo. Tra l’XI e il XIV secoloanche San Giusto di Susa è un importante produttore di vino.

Le attestazioni monastiche, avvallate anche da qualche carta privata, permettono di constatare che i contadini Valsusini possono consumare non solo il vinello ma anche “quello” buono: il vinus primus, vino primo, ossia di prima torchiatura o di prima pigiatura e il pistagium, il primo mosto. Quest’ultimo è menzionato, nel 1247, come censo in una permuta del Priorato Segusino di Santa Maria. Può essere anche destinato alla vendita per reperire fondi per acquistare beni di prima necessità: i censi in vino riguardano infatti la metà del raccolto lasciando l’altra a disposizione dei coltivatori. La vigna ha un’importanza notevole non solo per i monaci ma anche per i contadini: il canone della metà, tipico dell’Alto Medioevo piemontese, sembra sostituito dal terzo del vino e dal quinto del grano quando nei contratti è prevista la “pastinatio”: il conduttore dopo un periodo mediamente di sette anni dalla stipula può acquisire la proprietà piena di metà del terreno. Questo costituisce un incentivo per colture più pregiate.

Con l’avvento del Cristianesimo però, soprattutto con la sua vocazione ascetica e radicale, il buon mangiare e il buon bere vengono guardati con sospetto: uno dei sette peccati capitali è la gola. Nasceranno e dilagheranno così, nel corso dei secoli successivi, quando anche le autorità civili cercheranno di contenere gli sprechi ed emaneranno leggi per colpire gli eccessi nei banchetti, congreghe, soprattutto di studenti, che inneggeranno alla buona tavola e al vino. Fioriranno in quel clima componimenti e invettive satiriche: i testamenti burleschi di bevitori gaudenti, le invettive contro le annacquature dei tavernieri non solo esosi, ma rei anche di mescolare vini nuovi con vecchi, adulterare quelli bianchi con sidro o vino rosso.

Durante il Medioevo diviene un importante protagonista nel suggello di patti e alleanze tra gli Stati e il grande interesse che si sviluppa intorno all’enologia e alla viticoltura porta alla stesura di importanti trattati specialistici, quali ad esempio quello di Pietro de’ Crescenti (1233-1320).

Solo nel XIV secolo la coltura della vite subisce un periodo di difficoltà per lo sfavorevole andamento del prezzo del vino rispetto a quello dei cereali. Il costo di produzione della bevanda ha un notevole incremento a causa dell’aumento dei salari verificatosi nei primi decenni del secolo.

La flessione di produzione si registra in relazione alla vendita, mentre aumentano i piccoli appezzamenti famigliari destinati all’autoconsumo.

In ambito urbano, nell’alto Medioevo, l’uso del vino è un lusso riservato solo a mense ecclesiastiche. Diviene abbondante e generalizzato, fra gli individui di ogni sesso, età e località dal XIII secolo. È una facile evasione da realtà quotidiane difficili o disperate: sempre presente sulle tavole, nobili e popolane, sia tra i ricchi, laici ed ecclesiastici, che tra i lavoratori: la Cronaca della Novalesa ci presenta il Monaco Valtario con una fiasca di vino appesa alla sella del cavallo. Oggetto raramente attestato altrove.

Si beve sempre e ovunque: in casa, al lavoro, nelle taverne aperte giorno e notte: la loro frequentazione non rallenta nemmeno nei momenti tragici delle epidemie, quando il contagio raggiunge il suo acme.

Per le sue virtù sedative e stimolanti è usuale inserirlo nei pasti dei bimbi più piccini, nonostante i medici piemontesi, l’Albini fra tutti, intervengono per sconsigliarne la somministrazione almeno sotto i cinque mesi e raccomandare che ai ragazzi inferiori ai 14 anni sia miscelato con acqua.

Il dottore Antonio Guainerio, attivo nei domini sabaudi dalla seconda metà del XV secolo, osserva che ai malati sarebbe bene vietarlo, ma è arduo convincere i pazienti, riluttanti alla rinuncia anche di fronte al dolore fisico. Viene però prescritto un “bicchiere di vino buono” al giorno come prevenzione contro la peste.

La qualità non è molto pregiata: soltanto nel pieno e tardo Medioevo si affinerà il gusto. Ci sono vini bianchi, rossi e chiaretti, speziati e allungati, con acqua fredda o bollita, durante la vinificazione e a volte anche di frodo. Si trova, oltre al vinus primus, sin dall’Alto Medioevo la bevanda per eccellenza dei Signori, quello medius o secundus, da pasto, non troppo leggero e non troppo forte, ottenuto dopo l’estrazione del precedente senza aggiunta di acqua, ma talvolta di grappoli freschi, con successive spremiture per aumentarne la quantità, non certo la qualità: da un punto di vista dietetico è considerato il migliore. Seguono la pusca o picheta: poco alcolico, allungato con acqua e lasciato rifermentare dopo la seconda torchiatura, rosato e acidulo. Presente, sin dall’Alto Medioevo, sulle tavole dei contadini che coltivano le vigne di proprietà signorile, trattenendone il prodotto più scadente. Dalla fine del 1200 si trova menzionato, abitualmente, nei conti di enti assistenziali, nelle distribuzioni periodiche di vitto ai poveri e malati. È costantemente presente nei lasciti vitalizi annuali per gli alimenti che i mariti concedono, per testamento, alle proprie vedove, nel vitto quotidiano che i proprietari terrieri si impegnano a fornire ai propri salariati assieme alle razioni di pane e companatico: per questo compare sempre nelle provviste del ceto medio-alto. È un censo dovuto ai Savoia e rientra anche nei canoni parziari, specie in quelli a favore di enti ecclesiastici. È esente da qualsiasi gabella di trasporto e vendita. Addirittura nelle scommesse dei giochi d’azzardo, proibite dalle autorità comunali, inizia ad apparire, seppur modestamente, come scommessa lecita. Abbiamo poi il vinus afumosus, frizzante, secco, quello acutus, amaro e forte, di alta gradazione alcolica, talora di difficile digestione perchè guasto, il mollis, a bassa gradazione. Secondo le qualità organolettiche si possono ancora citare il vinus acetus bianco o rosso con un uso duplice: cucina e dissetante. Con esso si conservano i capperi o altri frutti piccanti, si cuociono le carni arrosto e in umido, si preparano le salse per accompagnarle insieme a pesci e vegetali, ma è anche dissetante se lo si mescola, in misure diverse, con l’acqua e in estate rende asettiche le acque. Il vinus albus, vino bianco, consigliato in estate ai malati o ai deboli di stomaco, ma non agli anziani e largamente usato in gastronomia: brodi saporosi e salse per carni arrosto. Il vinus Antiquus stagionato da almeno un anno e adatto a malati e anziani, l’austerus, secco, dal sapore asciutto e di buona gradazione alcolica, il clarus, limpido, giunto a perfetta maturazione: per far giungere un vino guasto a questo stadio gli si aggiunge, in giusta dose, pigne di pino capaci di schiarirlo. Il vinus debilis, a bassa gradazione alcolica e raccomandato dai medici, mescolato con acqua bollita, ai fanciulli, alle nutrici, agli organismi deboli in genere. Il vinus dulcis limpido e trasparente, quello grossus, corposo e gagliardo e il linphatus, usato fin dai tempi più antichi: annacquato talvolta anche più del 50% e consigliato a malati, nutrici e fanciulli. Molti statuti ne vietano lo smercio e agli osti di tenere recipienti pieni d’acqua accanto a quelli del vino. È però largamente diffuso tanto da essere lasciato anch’esso come quota annuale vitalizia, per il mantenimento delle proprie vedove, anche dai nobili. Il vinus maturus bene, il rubeus, rosso comune il subrubeus, rosato e leggero, il subtilis, vecchio con gradazione alcolica modesta, il torgiatus, vinus de torgia, mosto appena torchiato, non fermentato, il turbidus, non spogliato dal tannino per cattiva fermentazione e il vermilius, pregiato perchè invecchiato o perchè proveniente da un cru particolare. Il vinus nigrus, rosso, corposo e sconsigliato nei trattati medici, anche se gli si riconoscono virtù corroboranti e stimolanti, il novus, appena spillato e ancora torbido, l’odorosus, il potens o non multo potens a seconda della gradazione alcolica. Tutta una lunga serie di vini “guasti” o artefatti con l’aggiunta di succhi di frutta e spezie: vinus artificial, vinus crassus et nigro, vinus foeculentus e torbidus, vinus miscatus, loira, mixus, costituito per il 50% da vino schietto e per il restante o da acqua o vino scadente, o vini provenienti da botti diverse, spesso ne è vietato lo smercio, infine il vinus reversatus et marcius, corrotto, inacidito, la cui feccia risale in superfice.

A quelli mediocri si può regalare aroma o gusto intenso ed esotico con l’aggiunta di acqua di rose, di viole, spezie o essenze profumate locali: sofisticazioni ammesse e consuete anche sulle mense più ricercate. Diverse ricette sono in uso per “correggerlo” e particolarmente interessante è il metodo che si basa sul principio moderno della pastorizzazione: riscaldamento del vino malato, con cui viene ridotta la carica microbica e forse parte dell’attività enzimatica, con conseguente limpidezza del liquido.

Dalla prima metà del XIV secolo ad Almese è documentato il vinum nibiolii, il Nebbiolo.

Verso gli ultimi secoli viene rielaborato anche in cordiali e digestivi da centellinare a fine pasto come il Claretus, l’Hyppocras o il Vinus citoniatus: il primo fatto con il vino bianco, il secondo con il rosso e dolcificati con miele o con il costoso zucchero. Per l’ultimo si fanno macerare nel mosto mele cotogne a tochettini, o si mescola questo con il liquido ottenuto dalla torchiatura delle stesse. È usato anche come ingrediente base per salse per arrosti, carni e pesci lessi. Il Vinus moretus è invece un liquore aristocratico e prestigioso, preparato abbondantemente presso i Savoia e i Savoia Acaia: more ben mature, messe in fusione nel vino, solitamente a fine agosto, il tutto colato con un setaccio dalla tramatura molto fine.

Queste bevande sono menzionate anche nei trattati di medicina.

La viticoltura è protetta e ampliata al massimo nel tentativo, da parte della autorità comunali, di raggiungere l’autosufficienza: raramente, nelle zone vitate si consente l’importazione di vino, se non per il consumo degli infermi o in annate scarse qualitativamente e quantitativamente.

Proprio nel corso del medioevo nascono tutte quelle tecniche di coltivazione e produzione che arriveranno praticamente immutate fino al XVIII secolo, quando la vinificazione assumerà caratteristiche “moderne” grazie alla stabilizzazione di qualità e gusto, nonché all’introduzione delle bottiglie di vetro e dei tappi di sughero.

L’epoca della vendemmia è decisa, anno per anno, dai consigli comunali per rendere la qualità del prodotto il più uniforme possibile in tutto il contado. Generalmente avviene verso fine settembre e si protrae fin verso San Michele: circa un mese, ma nei terreni meno soleggiati anche fino ad autunno inoltrato.

L’uva dopo essere raccolta è pigiata, la torchiatura non è molto in uso e sovente viene saltata, liberata dalle vinacce, fermentata o bollita e infine travasata nelle botti a maturare nel legno da novembre a marzo.

La vinificazione richiede una costante domanda di legno per fabbricare e mantenere botti, tini e mastelli. I Signori proteggono particolarmente gli “alevamina” di castagno, abete e salice.

La stessa lavorazione dell’uva è sotto stretto controllo delle autorità, specialmente quando le prime fasi della pigiatura avvengono, come è consuetudine, direttamente sul luogo di raccolta per risparmiare sul trasporto: si vuole evitare che il mosto venga mosso durante la bollitura.

Normalmente non è lasciato invecchiare: si vendono e si consumano prevalentemente vini novelli, con due-tre anni d’invecchiamento, soprattutto per la difficoltà di una buona conservazione: i sistemi di chiusura dei tini sono largamente imperfetti e solo dal XIV secolo si utilizzerà il ferro per meglio sigillarli.

Il vino di produzione locale è solitamente esente da dazi e gabelle purché destinato all’autoconsumo, ad opere di carità, o se inviato nel contado “pro familia”: per i salariati rurali. Quello venduto paga la gabella: il prezzo di vendita è controllato dalle autorità locali che ne fissano anche le norme igieniche in cui deve avvenire e quelle per combattere le adulterazioni.

Susa esporta, grazie a un privilegio concessogli nel XIII secolo e conservato fino al XVIII nonostante la concorrenza del commercio vinicolo lombardo, vino in Savoia, nel Brianzonese e resto del Delfinato e a Ginevra. Fra i secoli XII e XIII l’attività degli abitanti è dedicata in gran parte proprio alla produzione di vino, probabilmente in gran parte Avanà.

Il suo commercio serve alla cittadina anche a controllare l’ingresso di quello forestiero: dal 1200 viene introdotta la leida una tassa che colpisce le transazioni sul mercato cittadino.

Un diploma del XII secolo testimonia il riconoscimento da parte del Conte Tommaso ai segusini della proprietà delle loro vigne e la libertà di venderne il vino ricavato.

Tra il 1290 e i 1294 Bussoleno ottiene di diventare fiera annuale grazie al commercio del vino.

Nel 1328 Martino Barallis, castellano di Mocchie, oggi frazione di Condove, riceve dai censi, dalle decime e dalle terre condotte direttamente, 110 sestari ,“a misura di Avigliana”, di vino e 10 lire di moneta usuale dalla sua vendita. Parte delle entrate in natura sono consumate dal Monastero di San Giusto di Susa.

A partire dagli anni trenta del XVI secolo inizia ad essere molto vasta anche la letteratura sulla vite e sul vino: finisce il tempo dei letterati, che si rifugiano nell’erudizione e nello studio dei convitti antichi, inizia quello dei tecnici che dissertano sulle peculiarità di ogni vitigno e illustrano anche la fabbricazione dell’acquavite e dell’aceto.

Nascono in questo periodo anche nuovi mestieri: uffiziali addetti alla bocca del Signore e fra figure come lo scalco e il trinciante c’è anche il coppiere: responsabile di vini e bevande.

Il vino è ancora protagonista nelle norme per scongiurare la peste.

Nel 1599 a Moncalieri, ma probabilmente anche in altre località, le regole emanate dalle autorità per il controllo ordinano che questo, l’aceto e l’acquavite, così come altri alimenti e bevande, si comprino in recipienti di terra che devono essere lavati all’esterno con acqua e aceto. Le botti vanno deterse con acqua salata. Ai fiaschi basta togliere la “fodra, coperta e ligadura” e bruciarli, poi si devono detergere esteriormente con “sponga”, spugna, e aceto.

Ai poveri si ordina di purificare gli oggetti e gli arredi con salvia, lavanda, lauro, rosmarino, scorze di mele cotte nel vino e acqua: i profumi veri e propri così come certe sostanze che bruciate sprigionano un odore acuto e penetrante, fin dall’antichità sono usati a scopi medici e in particolare, dal XIV secolo, trovano un posto di riguardo nella lotta contro le pestilenze.

Carlo Emanuele il 19 agosto dello stesso anno, ordina, per la città di Torino, che nelle case si purifichi prima di tutti gli altri ambienti la cantina e se necessario la si chiuda apponendovi il sigillo della città: nessuno può entrare a spillare il vino.

Il manifesto del Vicario Generale di Torino del 10 dicembre 1695 chiarisce molto bene l’importanza e i compiti di una figura ormai usuale nel mondo enologico, il Brentatore, autorizzandola, a tutti gli effetti, a sovrintendere al commercio del vino: “acciocché tanto il venditore, quanto l’accompratore possa sapere di quale qualità sia il vino, qual sarà in vendita, sono perciò stati deputati da questa città sei assaggiatori esperti muniti d’una carta col sigillo della Città, et sottoscrizione nostra, i nomi de’ quali sono descritti al piè del presente, quali hanno prestato in mani nostre il giuramento di ben, e fedelmente esercitare il loro officio, qual sarà di giudicare solo circa la suddetta qualità de’ vini, talmente, che trovando l’accompratore il vino a sua soddisfazione, et non potendo convenire il prezzo, si chiamerà uno de suddetti assaggiatori giurati, qual dovrà dichiarare di qual delle due qualità espresse nelle tasse sii il vino, et in seguito a tal dichiarazione, sarà il venditore obbligato di lasciarlo al prezzo espresso nelle tasse della qualità dichiarata, et sarà l’accompratore tenuto pagar all’assaggiatore soldi cinque per ogni carro di vino, ed ogni brenta dinari sei; de’ quali assaggiatori per maggior comodità de’ cittadini ve ne saranno sempre sul mercato del vino…

A metà del XVIII secolo il vino rappresenta una quota significativa di tutta la produzione agricola della Provincia di Susa. Il consumo complessivo è di 11.150 carre: pro capite mediamente 2 brente e 6 pinte, ossia 1,05 ettolitri.

La maggiore produttrice è Susa con 1.236 carre: di queste 636 esportate. La carra equivale a 10 brente e la brenta a 49,28 litri.

Chiomonte ed Exilles possono permettersi l’esportazione di 332 carre.

Il prodotto medio di vino, di una giornata di vigneto, ossia 3.810 metri quadrati, va poi dalle 17 brente e 35 pinte di Gravere, Meana e Mompantero, alle 16 brente di Chiomonte, alle 11 brente e 35 pinte di Exilles. Seguono Borgone con 6 brente e 2 pinte e Sant’Ambrogio con 5 brente e 9 pinte.

A termine di confronto, valga la media della provincia di Asti che è di 6 brente e 27 pinte.

Il vino alimenta un commercio fiorente, con una tradizione secolare di esportazione nei paesi dell’Alta Dora e oltralpe: Savoia e Delfinato. Chianocco, Foresto, Bruzzolo, Villar Focchiardo, Sant’Antonino, Caprie, Sant’Ambrogio e Almese vendono un prodotto definito di buona qualità.

Quello di Chiomonte spunta però i prezzi più alti per un miglior apprezzamento commerciale, tanto da essere in competizione con i vini di quelle che oggi sono le più rinomate aree viticole del Piemonte: Barolo, Serralunga d’Alba, Barbaresco, Cornegliano, Caluso, Carema, Lessona, Valdengo, Ceretto e Mottalciata.

Segue: Vinus Primus: la storia in un calice – Dal XIX ai giorni nostri –.

Affresco della cappella di Sant'Eldrado, dove il santo coltiva la vite
Abbazia di Novalesa: Cappella di Sant’Eldrado, sec. XI

Lascia un commento