L’estate del 480 a.C. volgeva al suo termine quando un piccolo contingente di fanteria greca guidato dal re spartano Leonida si attestava presso le Termopili bloccando la strada alle sterminate orde che Serse guidava alla conquista della Grecia. Gli opliti avevano risistemato un antico muro che chiudeva il passo e, per dei giorni, resistettero, infliggendo gravi perdite a un esercito numericamente molto superiore.
Volontà, decisione, migliore armamento e coordinazione: queste le chiavi che resero possibile la resistenza. Ma, soprattutto, la capacità di scegliere il terreno di scontro. In una strettoia, pochi possono tener testa a molti. E, in un’epoca in cui ancora non esistevano la polvere da sparo e l’aviazione, un passo ben presidiato dal nemico poteva significare la fine di una campagna militare.
Ma i Greci, alla fine vennero sconfitti. Sconfitti con l’unica arma possibile, l’unica che le falangi oplitiche temessero davvero: l’enkyklosis, l’accerchiamento.
Battaglie di questo genere si risolvono di norma, con l’arrivo di un trickster, di un ingannatore, di qualcuno che, operando al di fuori della morale comune (dell’etica della battaglia campale, in questo caso), ne scioglie l’impasse.
E il trickster, alle Termopili è Efialte, un Greco della zona che “pensando di ottenere una grande ricompensa da parte del re”, racconta a Serse dell’esistenza di un sentiero, usato dai pastori per portare al pascolo le capre, che aggira lo stretto delle Termopili. Il Persiano accoglie il suo consiglio e lo invia nottetempo su quello stesso sentiero come guida dei suoi soldati migliori, il contingente degli Immortali capitanato da Idarne.
All’alba, Leonida è preso tra due fuochi: Serse col grosso dell’esercito da un lato: Idarne con gli Immortali dall’altro. Non c’è via di fuga.
Ebbene anche la Valle di Susa ebbe le sue Termopili, ben meno famose, nonostante l’importanza della battaglia che qui si svolse nel 773 d.C. tra le truppe dell’ultimo re Longobardo Desiderio e quelle dell’astro nascente della dinastia carolingia, Carlo Magno.
E un’iscrizione su un masso erratico nella corte del Castrum Capriarum, detto comunemente Castello del Conte Verde, a preservarne la memoria:
SU QUESTO DOSSO ROCCIOSO
PLASMATO NEI MILLENNI
DAL GHIACCIAIO QUATERNARIO VALSUSINO
CARLO MAGNO RE DEI FRANCHI
SOSTÒ COI SUOI CONDOTTIERI
NEL 773 D.C.
DOPO LA BATTAGLIA DELLE CHIUSE D’ITALIA
CHE POSE FINE
AL SECOLARE REGNO DEI LONGOBARDI
E SEGNÒ L’INIZIO
DEL SACRO ROMANO IMPERO
Qui, dove ora sorgono i ruderi del castello e la cava di pietra, tra il Caprasio da un lato ed il Pirchiriano dall’altro, all’epoca erano poste le clusae langobardorum il cui nome ancora s’affaccia nel toponimo di Chiusa San Michele. “L’arduo muro / che Val di Susa chiude, e dalla franca / la longobarda signoria divide”, non era, in realtà un muro unico, ma piuttosto un insieme di fortificazioni presidiabili secondo il concetto del limes (confine) elaborato dai Romani.
Qui s’attestarono i Longobardi, sicuri di poter agilmente respingere l’esercito franco. E la battaglia delle Chiuse, così com’è narrata nell’Adelchi del Manzoni, presenta non pochi punti di contatto con la narrazione erodotea delle Termopili, forse proprio in virtù del tipo di battaglia che vi si combatté.
In primis, la presenza di una fortificazione a difesa della strettoia e la possibilità di tenere anche in pochi la posizione: “e questi monti / che il Signor fabbticò, con le sue torri / e i battifredi: ogni più piccol varco / chiuso è di mura, onde insultare ai mille / potrieno i dieci, ed ai guerrier le donne.”
In secondo luogo la presenza del trickster:
“I popoli biondi, tra cui i Longobardi, danno grande importanza alla libertà e sono coraggiosi e indomiti in battaglia: valorosi e impetuosi, considerano una vergogna qualsiasi esitazione. Cadono facilmente negli agguati, specie sui fianchi e nelle retrovie del loro schieramenti, perché non si curano assolutamente di collocare posti di sorveglianza né altre misure di sicurezza.”
Così recita un manuale di guerra bizantino. Ed è proprio da Ravenna, allora ancora sotto il potere di Costantinopoli, che parte il trickster: un diacono di nome Martino, mandato a spronare Carlo alla battaglia, un Carlo che ormai visti inutili i tentativi di prendere la strettoia, già meditava di ritirarsi e di abbandonare suo malgrado, il Papa, che l’aveva chiamato in soccorso. Martino giunge alle Chiuse e non potendo attraversarle, si infila tra i monti alla ricerca di un sentiero che lo conduca, aggirando la posizione longobarda, al campo dei Franchi.
“Dio gli accecò, Dio mi guidò. Dal campo inosservato uscii […]
Presi di quello / il più breve tragitto: ad ogni istante
si fea il rumor più presso: divorai
l’estrema via: giunsi sull’orlo: il guardo
lanciai nella valle, e vidi… oh! Vidi
le tende d’Israello, i sospirati
padiglioni di Giacobbe: al suol prostato,
Dio ringraziai, li benedissi, e scesi.”
Carlo si rianima alla notizia del sentiero e, come aveva fatto Serse, manda i suoi migliori guerrieri, il reparto di cavalleria guidato da Eccardo, insieme col diacono, ad aggirare le Chiuse.
Presi di sorpresa alle spalle, i Longobardi si disperdono, e Carlo può dare inizio alla campagna d’Italia che lo porterà a diventare , l’anno successivo, dopo la capitolazione di Pavia, capitale dei Longobardi, Rex Francorum et Langobardorum et Patricius Romanorum e a stringere i primi rapporti di amicizia col papato, ponendo così le fondamenta per l’incoronazione a imperatore, a Roma, in quella fatidica notte di Natale dell’800.
Fonti:
- Erodoto
- Manzoni – Adelchi atto I e atto II
Dall’articolo di S. Siviero