Il monachesimo è nato nei primi secoli nel deserto egiziano e mediorientale. La vita vissuta in contemplazione e in assoluta solitudine in ambienti molto isolati ed ostili richiedeva una dedizione eroica che solo pochi dimostravano di avere. Iniziarono così a formarsi più o meno spontaneamente piccole comunità di eremiti attorno a uomini in grado di guidare e sostenere, con l’esempio e con il carisma innato del leader, la ricerca di Dio. Tra di loro spiccano le figure di Pacomio e Basilio, considerati appunto gli antesignani e i padri della vita monastica cenobitica.
Pacomio (inizio IV secolo), Basilio, ma anche successivamente Giovanni Cassiano e Agostino di Ippona fondarono i primi cenobi e cercarono di scrivere le prime regole per guidare e disciplinare la vita in comune. Il loro concetto di “regola” era molto diverso da quello che ne abbiamo oggi. Per i primi monaci, la vera e ultima Regola era la Bibbia, e in particolare il Vangelo. La comunità degli Apostoli era l’unico modello di vita in comune cui fare riferimento. Le prime Regole contenevano semplici ammonimenti, qualche nota organizzativa e molti passi delle Sacre Scritture. Spesso le Regole erano confrontate e mescolate tra loro, e un monastero poteva utilizzare più Regole, secondo le necessità. La preghiera e il lavoro in una atmosfera di silenzio, erano comunque le caratteristiche peculiari dei primi cenobi.
Le traduzioni e le elaborazioni delle Regole orientali furono ispirazione ed esempio per tutte le regole degli ordini monastici dell’Occidente a cominciare dalla più famosa di queste: la Regola di San Benedetto da Norcia.
San Girolamo, mentre traduceva dal greco la vita di Pacomio, ricavò una miriade di precetti e regolamenti nati in occasione della fondazione di nuovi monasteri e tali da far dire che Pacomio scrisse in realtà una Regola. Tale Regola fu detta “dell’angelo” perché, secondo la leggenda, Pacomio non la scrisse di sua iniziativa, ma l’avrebbe ricevuta dall’alto, dal cielo.
Ogni precetto della Regola reca l’impronta della moderazione e della praticità. È un continuo incoraggiamento al rispetto, all’aiuto reciproco, al perdono fraterno, sia che si parli della preparazione del cibo, della coltivazione dei campi sia della preghiera.
Nelle prescrizioni di Pacomio troviamo per la prima volta formulata una norma che si tradurrà in un progresso intellettuale senza precedenti per i futuri monaci e, soprattutto, per le monache cristiane: per accedere al monastero bisognava saper leggere ed era obbligatorio imparare a memoria un buon numero di Salmi e l’intero Nuovo Testamento. Un criterio di selezione dei postulanti per merito che è diventato la cifra del monachesimo almeno fino al Rinascimento.
Ogni monastero era retto dal “pater”, un “padre pieno di carità e fermezza, attento alla salvezza di ciascuno”, e suddiviso in tante unità, dette “case”, guidate da un Priore.
Ogni monaco aveva a disposizione una cella, i confratelli mangiavano in un refettorio comune e osservavano due giorni di digiuno la settimana, il mercoledì e il venerdì.
Il lavoro era molto importante. Oltre alle attività indispensabili per la sopravvivenza delle comunità, allora in genere numerose, come il lavoro nei campi, la pastorizia, la preparazione del pane, l’accoglienza degli ospiti, la cura dei malati, molti monaci erano specializzati nella fabbricazione di stuoie e di ceste che vendevano nei villaggi vicini. Il sabato e la domenica, tutte le “case” si radunavano per una catechesi sulla Scrittura tenuta dal padre generale.
“Chi entra nel monastero ancora pagano, prima sia istruito su ciò che deve osservare e quando avrà accettato ogni cosa, gli si diano venti Salmi o due lettere dell’Apostolo o una parte del resto della Scrittura. E se ignora le lettere, alle ore prima, terza e sesta vada da colui che può istruirlo e impari con molta diligenza e ogni gratitudine. Poi gli si scrivano gli elementi di una sillaba, le parole e i nomi e sia costretto a leggere anche controvoglia. (…) Siamo ricchi di testi (delle Scritture) imparati a memoria. Chi non impara molto, non ne sappia meno di dieci, oltre a una parte del salterio, e chi recita (le Scritture) durante la notte reciti dieci o cinque salmi e una parte a memoria”.
Si attribuisce a Pacomio il primo utilizzo di una corda per la preghiera uno strumento tuttora utilizzato dai monaci e dai fedeli di rito ortodosso. La corda di preghiera assomiglia al rosario cattolico, ma è fatta di nodi di lana oppure di cuoio, e può contenere dai trentatré ai trecento nodi. La tessitura di una corda, come la pittura delle icone, è in sé stessa preghiera.
Per ogni nodo presente nella corda si recita la preghiera di Gesù, o preghiera del cuore: “Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”.
Una pratica tuttora seguita dai monaci del Monte Athos e in alcuni monasteri ortodossi è l’esicasmo e consiste nella ripetizione incessante e continua della “preghiera di Gesù” stando in una posizione rilassata. In questo modo, concentrando l’attenzione sulla respirazione, si può giungere a svuotare la mente di ciò che è effimero e aprirla al “regno di Dio che è dentro di noi”.
Questo metodo psicofisico sembra mostrare più di una affinità con le tecniche yoga e le forme di meditazione buddhista e zen. Per entrambe le tradizioni spirituali, infatti, una mente e un cuore tranquilli, liberi da passioni, preoccupazioni, attaccamenti, rappresentano la condizione indispensabile per elevarsi verso l’Eterno.
Immagine: Raphael Sadeler I (1561-1632), I santi Palemone e Pachomio (1598 circa, stampa)
Fonte: Claudia Colucci, Monaci e conventi, Edizioni del Baldo, Verona, 2015