La figura dell’eremita Giovanni Vincenzo è circondata da un’aura d’indefinitezza nella quale non è agevole discernere i tratti di realtà storica dal contorno leggendario che le pochi fonti narrative hanno formato intorno ad essi, elaborando modelli agiografici ed elementi biografici di varia provenienza. La documentazione di cui disponiamo si riduce a due scritti. Il primo è la Legenda Consecrationis composta da un monaco dell’abbazia di San Michele della Chiusa, durante il pontificato di Nicolò II (1058-1061) o poco dopo, per rievocare gli eventi che, sul finire del secolo precedente, erano stati all’origine della fondazione del Monastero . Il secondo è La Vita Sancti Johannis Confessoris, d’epoca successiva ed incerta ma verisimilmente ascrivibile al XII secolo, opera di altro monaco clusino, non residente nell’Abbazia ma probabilmente nel villaggio di Celle, che nel nome conserva la memoria della colonia eremitica insediata sul monte Caprasio, ove erano allora conservate le spoglie del santo e ne era vivo il culto popolare.
Sicuramente Giovanni Vincenzo fu membro autorevole, se non addirittura iniziatore, di quel gruppo di eremiti, la cui esistenza troviamo attestata nel primo decennio dopo il Mille nel documento di Gezone, vescovo di Torino, recante l’atto di fondazione dell’abbazia torinese di San Solutore. Assai probabile è la sua provenienza dal territorio di Ravenna, secondo quanto tramanda la Legenda Consecrationis, ove è altresì raccolta la fama della dignità episcopale che vi avrebbe rivestito prima di ritirarsi in solitudine. La Vita del XII secolo specifica questa notizia qualificandolo come metropolita di Ravenna, ove effettivamente sedette tra il 983 e il 997 o 998 un arcivescovo di tale nome, la cui origine pavese e il cui legame familiare con la casata dei conti di Besate giustificherebbero il rapporto con la regione subalpina e la scelta della valle di Susa come luogo di vita eremitica.
Certa è, sebbene oscurata dalla tendenza della fonte clusina, mirante ad accentuare il ruolo del nobile Ugo di Montboissier nella fondazione del Monastero, la sua partecipazione ai primordi dello stabilimento religioso sul monte Pirchiriano con la costruzione di un sacello dedicato all’Arcangelo, intorno al quale si svilupperà la prodigiosa mole dell’Abbazia. In relazione a queste notizie e all’insolubile enigma cronologico che avvolge la data della fondazione di San Michele della Chiusa, la soluzione più verosimile e corrispondente alla testimonianza delle fonti appare quella di una duplice origine, dapprima come santuario e cella di vita eremitica, indi come monastero soggetto alla regola benedettina, attraverso una prolungata fase di costruzione delle coenobiales officinae con la partecipazione di soggetti locali, il Vescovo e il Marchese di Torino, di esponenti della nobiltà francese e di religiosi formati alle esperienze di riforma monastica nella regione tolosana.
Questi dati di tradizione sulla figura di San Giovanni Vincenzo furono arricchiti dagli agiografici clusini di particolari ora poetici, il miracolo delle colombe che trasportano sul Monte Pirchiriano i materiali per la costruzione della cappella, preparati dall’eremita sul Caprasio, ora commoventi, la resurrezione del fanciullo mortalmente oppresso in una calca di folla e restituito dall’arcivescovo alla madre disperata. L’autore della Legenda consecrationis, assunse come modello le storie dei Santuari di San Michele in Puglia e del Mont Saint-Michel in Normandia, nel chiaro intento d’instaurare un parallelismo onorevole per il proprio monastero conformando gli eventi che avevano segnato gli esordi di questi miracoli che erano stati all’origine di quelle più antiche e celebri mete di pellegrinaggio. Il più tardo autore della Vita presuppone ed espressamente cita, con qualche imprecisione, la Legenda Consecrationis, della quale tuttavia modifica la prospettiva incentrandola sull’eremita del Caprasio, nella cui figura istituisce un nesso inscindibile con il monte Pirchiriano, quasi a giustificare l’appropriazione della sua memoria da parte della dominante abbazia. Egli elabora diffusamente i miracoli del santo nel periodo ravennate attribuendogli, nell’assoluta mancanza di notizie, particolari riguardanti antichi vescovi di Ravenna, ricavati da un testo poco diffuso nel medioevo, il Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis, composto nel IX secolo da Agnello Ravennate, giunto per ignote vie alla sua conoscenza. Inoltre, l’agiografo del XII secolo costruisce il racconto della solitaria morte dell’eremita, privo di ogni umano soccorso, ma assistito dalla celeste consolazione degli angeli, non solo sul modello esplicitamente richiamato della morte del primo anacoreta, San Paolo eremita, quale è narrata da Girolamo, ma implicitamente a somiglianza del transito di San Romualdo, analogamente descritto nella Vita composta da Pier Damiani.
Ciò richiama il problema del possibile collegamento tra l’anacorèsi di San Giovanni Vincenzo e l’esperienza eremitica istituzionalizzata in quegli anni da Romualdo di Ravenna. Gli studiosi moderni hanno per lo più rigettato la qualificazione di Giovanni come Romaldi alumnum nella pretesa epigrafe sepolcrale, fatta invano ricercare dai camaldolesi qui in Sant’Ambrogio di Torino e da essi riportata sulla sospetta fede dell’abate Guido Grandi, brillante erudito quanto famigerato falsificatore di testi a gloria del suo Ordine. Comunque, la probabile provenienza ravennate del nostro Santo come quella del pater rationabilium heremitarum, il passaggio transalpino di Romualdo nel ritorno da Cuxa e la comune temperie storica, segnata dalla diffusione dell’eremitismo, inviterebbero a considerare la verosimiglianza di rapporti il cui accertamento deve tuttavia arrestarsi dinanzi alla mancanza di documentazione sicura e diretta sulla spiritualità eremitica dei solitari del Monte Caprasio.
Infatti, nonostante la fama internazionale che circondò l’Abbazia nei secoli di maggiore splendore e la propagazione delle sue dipendenze non solo nell’area alpina occidentale, ma anche nell’Italia settentrionale, nella Francia meridionale e centrale e fino alla penisola iberica, la tradizione delle opere letterarie composte nell’ambiente di San Michele della Chiusa è assai esigua.
Tratto da: Antonio Placanica – La Vita di San Giovanni confessore –