fotografia di Franco Borelli, della Sacra di San Michele, che svetta sul Pirchiriano.

Dalle pagine impolverate di un anonimo viaggiatore francese del 1870, ritrovate nella biblioteca abbaziale di San Michele della Chiusa e tradotte.

“Avevo, dell’Antica Abbazia di San Michele, più conosciuta sotto il nome di Sacra, un’idea che ritornava sovente al mio spirito, quando affaticato dalle angosce e dai problemi del mondo, sentivo che il mio cuore aveva bisogno della solitudine per apprezzare il riposo, e quando io provai per la prima volta a scrivere, fu alla Sacra che trovai l’uomo del quale, io descrissi la vita e gli affanni; fu dentro questo asilo, una volta aperto al pentimento, come all’innocenza, che io condussi lo sfortunato Gerard.

Desideravo molto visitare i luoghi ove la mia immaginazione mi portava molto sovente, senza che io avessi ancora trovato il giorno per poterlo fare; esso arrivò infine attraverso alcune circostanze, dove il mio animo era aperto solo a delle impressioni così tristi che tutti i miei sguardi fuggivano i gradevoli riposi.

La dolce vista che la vasta pianura offriva ai miei occhi, si fermava, con triste soddisfazione sulle sterili rocce circondate da precipizi.

Mano a mano che noi avanzavamo sulla montagna, la natura si mostrava a noi con un aspetto molto triste, ma più maestoso. Foreste, castagni selvatici, si succedevano alla ricca vegetazione della Valle della Gioia; ben presto arrivammo ad un prato riparato, con delle rocce ricoperte da un muschio grigiastro; qualche cespuglio talmente spoglio che il suolo che lo sosteneva scricchiolava sotto i nostri piedi. In questo luogo deserto, il silenzio che regnava era solo disturbato dalla caduta delle pietre che , mosse, fuggivano sotto i nostri passi. Il cielo era coperto di spesse nuvole, una leggera pioggia spinta da un vento bigio, cominciava a cadere, quando noi arrivammo sulla cima della montagna in faccia alla Sacra fino ad allora nascosta ai nostri sguardi.

La massa e la forma di questo edificio augusto attestano allo stesso tempo, il coraggio dell’uomo che osò l’impresa e l’epoca remota nella quale quest’uomo ha vissuto.

Egli ha sicuramente dovuto contare su dei tesori e su delle somme incalcolabili per portare nel breve periodo di 30 anni, questa grande impresa a suo termine; ma quanto la gloria, quanto l’amore hanno potuto fare cose le più difficili, ci si stupisce se l’entusiasmo più nobile della religione si è portato qualche volta al di là di tutto ciò che l’immaginazione ella stessa osava concepire?

Struggenti ricordi mi strappano qualche momento al sorprendente rispetto che mi ispirava la vista della Sacra.

Lo sguardo volto verso il fondo della valle, mentre ci avvicinavamo alla vista del monte Caprasio e Pirchiriano, che rigoglioso circondava il villaggio della Chiusa, mi ricordava come il luogo fu celebre durante le lunghe guerre dei Lombardi e dei Franchi. Questo luogo mi diceva che l’armata di Astolfo è stata sconfitta; e ancora là che lo sfortunato Desiré tradito dai suoi ufficiali, abbandonato dalle sue truppe, dovette cedere a Carlo Magno una vittoria che il suo coraggio aveva per lungo tempo disputata; è proprio là che è trascorsa questa memorabile giornata, dove si capovolse il trono dei Re Lombardi e si sottomise l’Italia alla dominazione d’un vincitore straniero.

I miei piedi si fermarono sui confini dell’Italia vinta, e i Galli trionfanti, quando questa parte delle Alpi, sulla quale aveva già regnato Cotius, diventò una provincia della Borgogna. Già da quei tempi lontani il monte Pirchiriano era stato guardato con una sorta di rispetto, sia per la favolosa esistenza della città di Perghi che si pensava esistesse in quei luoghi, sia per la falsa etimologia del nome stesso della montagna che si suppone significhi “Luogo di fuoco, fuoco del Signore”.

Già un pio eremita che viveva nella solitudine del monte Caprasio, costruì sulla cima del Pirchiriano una cappella che numerosi pellegrini visitavano sovente, fino a che Hugues d’Auvergne posò nel 966 la prima pietra del grande edificio che si vede ancora oggi.

Non si sa se la pietà o il rimorso avessero condotto questo nobile straniero a Roma, ma egli ritornò e decise di far eseguire il progetto per costruire un Tempio al vero Dio, del quale i Saraceni avevano distrutto gli altari di San Giusto e della Novalesa.

Noi ricordammo con tanto spavento i disastri causati da questo popolo infedele e barbaro, per fortuna il ricordo di questi disastri non ha impedito la scelta del posto, ma suggerì la precauzione di bloccare l’unica strada che conduceva al monastero, con la costruzione di una fortificazione.

Il recinto esterno dell’Abbazia fu munito di feritoie e di mura merlate.

Queste immagini di guerra nel recinto consacrato a un Dio di pace, devono sicuramente apparire strane; ma tutto ciò nacque come conseguenza ai contrasti tra gli uomini, che, con coraggio si dedicano alla difesa di questa novella Sion, e le idee religiose, che unite alle idee cavalleresche del X secolo, si estesero sino a portare un gran numero di guerrieri ad abbracciare la vita monastica in questo luogo che pare proteggerli dai pericoli e portarli alla gloria.

Ancora vidi come gli stessi uomini, alternativamente, preti e soldati, cantare dei cantici all’eterno, e umilmente prosternarsi nel Tempio, e vegliare la notte dall’alto delle torri per garantire la sicurezza.

Quanti, con lo spirito prevenuto nei loro confronti, si sbagliano, e credono che questi luoghi solitari siano abitati da uomini egoisti, deboli, inutili alla società; entriamo nell’Abbazia benedettina senza entusiasmo, ma anche senza animosità. Entriamo in San Michele, avviciniamo gli uomini rispettabili che la abitano.

I primi che incontro sono i più giovani, i più vigorosi, in ordine, si alzano all’aurora, e in silenzio si avviano al lavoro della loro giornata, senza distinzione di nascita, in uno stato che li vede tutti uguali, tutti dello stesso rango, essi vogliono abbattere la foresta selvaggia che copre il vallone vicino, io li vedo riempire le loro tasche con lo zelo di un agricoltore robusto e l’intelligenza di un buon padre di famiglia!

E non diciamo dell’ardore con il quale essi svolgono questo pesante lavoro dal quale non aspettano alcun frutto per se stessi.

È certamente per gli stranieri, per gli sconosciuti che essi lavorano questa terra ingrata.

Guardate, non lontano, laggiù i campi coperti da spighe dorate, guardate questi boschi dove i castagni hanno rimpiazzato il terreno sterile, l’inutile abete e sappiate che senza la devozione di queste virtù solitarie, essi vi avrebbero offerto la vista di un arido deserto.

Le famiglie dei contadini, dei quali più in basso si vedono le umili dimore, sono colpite ingiustamente da uno sconsiderato tributo alla comunità alla quale coltivano i campi, la nutrono e curano gli alberi che la rinfrescano. Queste famiglie mendicheranno ancora la loro fame alla porta del ricco se i religiosi continueranno a mantenere il diritto di trattenere i frutti del loro pesante lavoro.

Entro dentro al monastero, l’ordine e il silenzio vi regnano; ciascuno è occupato non secondo la sua volontà o il suo capriccio, ma in base alle sue forze e possibilità; gli uni destinati a sorvegliare la casa, curano i dettagli necessari all’accoglienza della numerosa famiglia, gli altri caricati dei doveri dell’ospitalità, l’esercitano senza altra distinzione che quella del bisogno in cui si trovano gli individui che la richiedono. Essi hanno il compito di soccorrere i poveretti che il mondo dimentica, ma non attendono che l’indigente tenda loro la mano, la loro nobile sollecitudine previene l’imbarazzo della domanda, essi vanno a cercare l’infortunato lungo la strada per curare la sua miseria, lasciano il riposo che il loro cuore ha cercato, sfidando la fatica e i pericoli; essi entrano nelle città, ma passano davanti al palazzo di un grande senza alzare gli occhi sulla facciata superba che lo decora, e corrono al casolare del povero con lo zelo di un fratello che va a trovare un fratello sfortunato.

Qualcuno dei pietosi solitari, è destinato a portare delle parole di consolazione all’uomo che è arrivato al termine della sua vita; ministri di un Dio di misericordia, l’indulgenza è la loro prima virtù, la carità che eleva le anime al di sopra del timore del pericolo, essi si avvicinano agli appestati che sono abbandonati dai loro figli, i galeotti non li fermano, essi portano lo stesso zelo presso la stuoia del contadino così come al letto del Principe, mai essi si informano chi è l’uomo che li chiama, non hanno che un unico scopo: svolgere le auguste funzioni del loro ministero, qualsiasi straniero è puro ai loro occhi, l’innocenza e la freddezza hanno per loro un uguale diritto.

Nel padiglione più lontano del monastero, sono alloggiati i “fratelli” che si occupano delle scienze, noi a loro dobbiamo la più gran parte di quello che è rimasto degli antichi autori, e la storia dell’epoca la più oscura degli Imperi moderni.

Non lontano di là, c’è un vasto spazio dove le arti abbandonate nei secoli dell’ignoranza, pare si siano rifugiate.

Avvicinandoci ai muri della Sacra, noi incontrammo un uomo che per fuggire alla persecuzione del fanatismo rivoluzionario, si era ritirato in questo asilo abbandonato da lungo tempo. Lo fermai con gentilezza e quest’uomo severo, ci accolse con molta ospitalità e ci prodigò tante cure, fino a lasciarci la parte migliore del suo rifugio.

Seduto, insieme a noi attorno ad un camino antico, ci mettemmo a chiacchierare amichevolmente dei luoghi dove ci troviamo, della felicità che lui era riuscito a trovare e del suo desiderio di terminare la sua vita, noi l’ascoltammo per lungo tempo con interesse.

La notte stendeva il suo velo sulle volte gotiche dell’antico salone, aumentando la loro maestosità e portando l’anima al raccoglimento.

Noi eravamo emozionati, ma con emozioni senza dubbio diverse: da parte mia avevo la libertà di pensare e la facoltà di sentire le sensazioni le più opposte che si alternavano con una rapidità straordinaria.

Durante quella sera, mi sentivo alternativamente molto bene e molto male. Sicuramente durante i secoli, in questo luogo sono cadute fredde lacrime di pentimento.

La notte fu lunga e anche la mia agitazione. Non cercai il sonno che mi fuggiva, troppo preoccupato per desiderare il riposo; quando apparve l’aurora vidi arrivare con essa il nostro solitario che stava andando ad offrire al cielo il più augusto dei sacrifici, ci invitò a seguirlo. L’aspetto venerabile del vecchio, sollecitò la mia immaginazione e rinfrescò il mio cuore bruciante.

Volevo mettermi sotto la sua protezione dimenticando che io dovevo restare là dove molti sciagurati avevano già trovato sollievo alle loro pene.

Dopo questo giorno non penserò più che l’anima non può provare nello stesso istante due sensazioni ugualmente profonde, ugualmente estese e completamente opposte!

Ah, proprio perché sono opposte esse non sono affatto esclusive!

Camminando in mezzo alle rovine e alle tombe, mi sentii debole e forte nello stesso tempo. Potei vedere nello stesso tempo la vita e la morte come un gran bene. Come ho potuto provare tanta felicità e tanta sofferenza? Il mio cuore pieno di idee, le più assurde, non ha mai provato impressioni più dolci di questa squisita sensibilità, e la sensibilità non diminuisce la grandezza.

L’agitazione che provai in questi luoghi sacri, non si può descrivere. Essa è stata la mano che ha schiacciato il mio cuore, chi mi strappava le lacrime? Io l’ignoro. Povero è l’uomo che non proverà mai i profondi movimenti dell’anima.

Ognuno di noi andò separatamente nei sepolcri con rispettoso silenzio, purtroppo, si vedono in questi luoghi le tracce del vandalismo causati dal tempo e dall’impura mancanza di pietà, che levò la sua testa odiosa, e osò turbare il riposo dei morti senza ragione ne scopo.

Al fondo del lontano peristilio, attorniato dai trofei di un tempo, meditai sul quadro funebre che si offrì ai miei occhi, e il vecchio frate che fa il portinaio alla Sacra si trovava in alto sul grande scalone lungo il quale si arriva alla Chiesa.

Abituato agli oggetti, che invece spaventano noi, li guarda con indifferenza, non degnandosi nemmeno di posare il suo sguardo su di loro. La nostra emozione non gli interessa per niente, oppure, nemmeno la percepisce, il solo suo movimento è stato di impazienza, mosse lentamente il cordone delle chiavi che teneva nelle mani.

Qualche gradino più in basso, il mio amico, profondamente colpito, era immobile, vicino ad una tomba antica con la sua giovane sposa, pensando a tutti i privilegi che sono andati persi. In quel momento non cercava di nascondere ma neppure voleva far vedere l’emozione che lo agitava; la sua anima sensibile si trovava contemporaneamente in quel triste posto e in un luogo di piacere e felicità. Li vidi tutte e due versare qualche lacrima su questo povero sconosciuto e io feci un voto a me stesso: “Chiedo che alla fine della mia vita mi sia permesso di sentire e raccogliere la dolce lacrima di amicizia che cadrà sulla mia tomba”. Ma non l’avrò mai questo bene. Io non l’avrò mai questo bene se le ceneri di qualche straniero del quale io ignoro il nome e l’esistenza , riposeranno in questo luogo di dolore, noi non ci saremo, e io sarò solo.

Risale a quei tempi lontani l’uso di rinchiudere in feretri le spoglie inanimate di persone che ci sono state care, guardate con quale cura sono trattate queste tombe. Il sonno della morte, è interrotto solo dalle visite indifferenti, troppo sovente fatte con una insultante curiosità. La moltitudine è sempre pronta ad esercitare una falsa sensibilità, schiacciando le emozioni. Odio questi giudizi barbari e desidero vivamente che qualche lacrima coli un giorno sulla mia tomba.

Le colonne che sostengono il portico che conduce alla Chiesa, che si trova sulla parte superiore della costruzione, sono ornate da sculture gotiche delle quali, la loro vetustà è il solo merito. Le iscrizioni che le circondano, non hanno molto interesse, e le preghiere funerarie che sono incastrate senza ordine nei muri, conserveranno il ricordo di qualche nome oscuro che rimarrebbe ignorato senza di loro. Io preferisco le umili tombe che ho appena superato! Una semplice croce ci indica che esse ricordano delle ceneri cristiane, esse hanno fatto molto per la pietà e poco per il cuore.

Il cuore non si tradisce mai sulla tomba di colui che ha amato.

I monumenti devono essere fatti per gli uomini rari il cui ricordo diventa di interesse generale.

La Chiesa di San Michele è molto abbandonata, specie dopo che la pietosa ignoranza decise di decorarla d’un gusto moderno, ma l’immaginazione che cambia sovente gli oggetti sotto i nostri occhi, mi ha trasportato in un istante attraverso sette secoli, al tempo in cui questo tempio era nel suo più grande splendore. Mi immaginai di sentire ancora sotto queste volte sacre, le lodi del Signore, cantate notte e giorno, mi ricordai che questi pii solitari erano spesso dei guerrieri illustri che avevano trascorso la più parte della loro vita nei tumulti dei campi di battaglia, mi immaginai che qualche criminale si sia riparato in questo luogo, coperto con il cilicio della penitenza , e che questa porta aperta al pentimento, ne abbia visti senza dubbio molti, capii che la giovinezza non è stata intimidita dai rigori di questa austera solitudine, essa è stata cresciuta con l’innocenza o con i dolori di una grande passione, ai quali si crede raramente nel mondo, perché ci sono molti uomini nel mondo capaci di non provarli mai.

Mi immaginai di vedere negli antichi stalli del coro un vecchio guerriero risvegliatosi dalle illusioni della gloria, vicino ad un giovane uomo oppresso dai dispiaceri dell’amore. L’uno e l’altro conservano sotto l’abito della penitenza i tratti che li caratterizzano: tutti e due non vedono altro nella vita che la strada che porta ad un avvenire eterno, l’uno ha vissuto molto per la gloria, l’altro ha conosciuto l’amore solo attraverso i dispiaceri!

I tratti del vecchio cavaliere, dimostrano ancora sotto la lana grossolana che lo copre, una nobile fierezza, i tratti del giovane uomo, indebolito dalle sofferenze, mostrano invece tutto quello che può fare su un cuore sensibile l’uragano di una grande passione.

Accanto a queste vittime, logorate da un sentimento irresistibile, io credetti di vedere un cattivo cortigiano al quale la cattiveria aveva infine aperto gli occhi che per lungo tempo furono chiusi alla vista dell’umanità sofferente, della giustizia negata, dell’oscura virtù gemente nel bisogno.

Quest’uomo, abituato ai fasti delle corti, arrivò a dominare l’odio, egli riconobbe la sua debolezza passata, compianse i suoi torti, e si prosternò davanti al Re dei Re, non osando alzare sul Santuario i suoi occhi pieni di lacrime. Un vecchio oppresso dall’austerità e dagli anni, sembrava occupare la stanza accanto. Egli rifiutava decisamente, dopo 50 anni di penitenza, la violenza che aveva sporcato la sua giovinezza.

Signore fuggente e terribile, invidiava al suo debole vicino l’eredità dei suoi padri, e senza pretesti si armò per riuscire a rubargliela; l’ingiustizia trionfò. In questa lotta impari, l’oppresso perse la vita difendendo i suoi beni, ma l’oppressore non gioì del suo colpevole successo.

Straziato nel momento della vittoria, dalla vista terribile dei rimorsi, egli lasciò il suo superbo castello ai figli della sua vittima e corse ad incatenarsi agli altari di un Dio misericordioso che perdona ai criminali penitenti.

La mia trascinante immaginazione si compiaceva ad aggiungere contrasti a queste situazioni, essa mise di fianco a questi sfortunati il ritratto della toccante innocenza. Un giovane solitario ignorato, in un mondo che non conosceva per niente, alzò il suo sguardo puro e il suo cuore ancora più puro verso il cielo; la dolce serenità che brillava nei suoi occhi, dimostrava un animo tranquillo e felice che amava Dio con passione, egli si era elevato verso Dio fino a non sentire più il peso delle sue sofferenze, e per gioire della felicità, le indirizzava al solo oggetto del suo tenero affetto: il suo animo ardente non poteva sentire debolmente un amore senza entusiasmo, egli fu pieno di passione nel mondo, ma ebbe in cambio dal mondo un rifiuto a tanta passione!

Venti altre situazioni differenti si offrirono al mio spirito.

Nella sua esaltazione ogni oggetto non si presentava come reale, alla fine mi immaginai al centro di questa numerosa famiglia.

Il padre adottivo che la dirigeva sotto il nome di Abate, ornò questo nobile vegliardo di dolci virtù che fecero nascere l’amore per colui dal quale la pietà ha fatto nascere la severa stima per lui solo. Quest’uomo onorabile e venerabile non posa mai sui suoi figli che sguardi d’incoraggiamento e di indulgenza piena di umanità, sempre sensibile; se lui dimentica qualcuno è solo se stesso. Nessuno avrà dei problemi a svelargli interamente la propria anima, e quali che siano le sorti di colui che cercherà di lavare i suoi peccati, sarà egli sicuro di trovare nel suo cuore, tanto tenero quanto puro pochi rigori e tanta pietà.

Nella disposizione nella quale era la mia anima, la tempesta della mia immaginazione, fece su di me la stessa impressione di una realtà costante.

Dimenticai un attimo i doveri che quei luoghi sacri mi richiamavano. Nel tumulto del mondo, dimenticai che questi santi ritiri vengono distrutti e l’uomo sfortunato cerca nelle privazioni e nell’oscurità l’oblio e la calma. In questi ritiri gli sfortunati, che attraverso grandi sforzi di profonda meditazione non potranno sempre ritrovare la pace e il sollievo dai loro dolori, si abbandoneranno alla solitudine.

Decisi immediatamente di uscire dall’illusione che mi avviluppava e ricordai a me stesso di salire sul campanile, e dal campanile alle balaustre delle quali è bordata la parte superiore del tempio; proposi di fare un giro, ma non era una prova di coraggio, perché non avevo assolutamente l’idea del pericolo al quale mi esponevo, ma appena i miei compagni di viaggio mostrarono l’intenzione di seguirmi, una violenta emozione nacque in me: vidi un grande pericolo, può darsi che non ci fosse in effetti, ma io persi all’istante non solo la mia volontà, ma la possibilità di mettere in atto il mio progetto.

Che un filosofo spieghi questo cambiamento subìto dal desiderio e dalla forza! Che lo scettico dubiti, a me è sufficiente l’averlo provato.

Scendendo dall’eremitaggio, bisognò pensare alla partenza, diedi al mio ospite un addio rispettoso; lui ci accompagnò per un po’ di tempo, e si separò da noi augurandoci tanta felicità quanta lui aveva trovato in quel ritiro abbandonando tutto. Felice, mille volte felice l’uomo che sa mettere Dio tra lui e il mondo.

Camminammo in silenzio lungo la stessa strada che ci aveva portato la sera prima alla Sacra. Mi sentivo leggero e nello stesso tempo ero triste, ma di una tristezza che non nasce dai dispiaceri e dalla noia. La mia anima passò ben presto da questo stato allo stato di abbandono nel quale si prova il fascino di una gioia tranquilla. Mi trovavo in questa felice situazione. Noi che l’abbiamo conosciuta, noi soli possiamo capirla! Si cerca la solitudine nel folto di un bosco oscuro nel quale la luna porta i suoi incerti raggi. Il rumore di un torrente, il canto lugubre degli uccelli notturni, una dolce melanconia si impossessa di noi, ricordi sovente tristi ma mai cancellati riempiono il cuore, qualche lacrima scivola sul viso, ma non sono lacrime amare. I pensieri si moltiplicano ma non si scontrano fra loro, si avvicendano senza tumulto diversi tra loro.

Non è possibile che un’idea estranea alla sensibilità, che un progetto ambizioso, che un incontro di fortuna, entrino nel cuore e siano così deliziosamente assorbiti. Una fantasticheria profonda prende vita, perdere l’idea della propria esistenza. Il tempo vola e nessuno riesce a misurarne la durata, e l’uomo è stupito infine di ritrovarsi così lontano dal suo punto di partenza.“

Di Emerenziana Bugnone

Socia Monastica Novaliciensia Sancti Benedicti, volontaria culturale e accompagnatrice.

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