Un luogo fuori dal tempo, sinonimo di silenzio e raccoglimento. Sullo sfondo la storia di un re plantageneto e della martinella del Carroccio.
L’eremo di Sant’Alberto di Butrio si trova nell’omonima frazione di Ponte Nizza, non lontano da Varzi, sulle dolci colline dell’Oltrepò pavese della Valle Staffora. In un contesto che conserva ancora i tratti di un tempo; tra una serie di monti e calanchi, circondati da boschi di faggio e castagni, verdi pascoli e tanta tranquillità.
L’eremo sorge a 687 metri di quota, in una posizione dominante su uno sperone calcareo nei pressi di un castello di epoca longobarda, che diede il nome al paese ma andò presto in rovina senza poi lasciare traccia. Domina un tratto di quella che era una volta l’antica via del sale che collegava Genova e il mare con Milano e il Nord Europa.
In principio, un miracolo
L’edificazione dell’eremo iniziò nel 1030 per mano dello stesso Sant’Alberto di Butrio, di cui però si hanno pochissime notizie. L’eremita aveva ricevuto il monte e le sue terre come segno di ringraziamento da parte di un nobile locale: il marchese di Casalasco (dei Malaspina feudatari, indiscussi signori di questo territorio); per aver guarito miracolosamente uno dei suoi figli affetto da mutismo. Dunque, il Marchese edificò una chiesa romanica dedicata alla Madonna, in cui Sant’Alberto e i suoi seguaci potessero vivere e celebrare i riti religiosi. Costituitisi poi in comunità, gli eremiti edificarono il monastero di cui rimane attualmente un’ala, il cosiddetto chiostrino e il pozzo.
L’eremo nacque sotto l’influsso benedettino che, proprio a Pavia vide la nascita del monastero di San Maiolo, fondato nell’anno 967. Il monastero pavese divenne il principale centro di diffusione della riforma cluniacense in Lombardia. I monaci presenti a Butrio seguivano infatti la regola benedettina, secondo la riforma di Cluny o la revisione bobbiense; mantenendo tuttavia sempre viva la vocazione eremitica.
Sant’Alberto rimase a capo delle comunità portando avanti l’opera dell’abbazia fino al 1073, anno della sua scomparsa. Nel frattempo l’eremo, alle dirette dipendenze del Papa, era assurto a grande potenza sia spirituale che temporale. Molte erano le celle e le dipendenze dell’eremo, situate nei dintorni, tra i territori delle attuali province di Piacenza, Pavia, Alessandria, arrivando fino a Genova.
Ospiti illustri e un re in fuga
Nei secoli ospitò illustri personaggi tra ecclesiastici e laici, tra cui sembra anche il re d’Inghilterra Edoardo II Plantageneto (1284–1327). Il quale, in fuga dalle sue terre, aveva trovato rifugio prima nel Castello di Melazzo vicino ad Acqui Terme.
Gli abitanti della Valle Staffora hanno sempre tramandato la storia di un re in fuga da terre lontane, arrivato a vivere nella valle. E anche la toponomastica locale sembrerebbe riflettere questa versione.
Nell’eremo di Butrio è presente una tomba di pietra con un elegante arco normanno, sicuramente appartenuta a un personaggio importante e di rilievo. Inoltre, è l’unico sacello presente all’interno del complesso monastico, fatta eccezione per quello del fondatore Sant’Alberto. Attualmente è indicata con un cartello esplicativo recante la scritta Edoardo II.
Inoltre, tra i santi effigiati nell’oratorio di Sant’Antonio, una delle tre chiese dell’abbazia, figura San Giorgio, patrono d’Inghilterra. L’ipotesi di un re eremita, corrisponde inoltre al ritratto di Edoardo II. Costui era molto religioso, non amava la vita di corte e, preferendo trascorrere periodi di raccoglimento e ritiro presso alcuni conventi, compiva pellegrinaggi; oltre a sostenere economicamente numerose chiese e opere monastiche. Un documento ritrovato nel 1877 attesta che quando morì, il re fu sepolto in questo eremo, prima che le sue spoglie fossero traslate a Gloucester.
Tra le altre notizie che riguardano personaggi noti del passato, si ritiene che siano passati anche Federico Barbarossa e Dante Alighieri.
L’infelice lascito della commenda
Con l’avvento della commenda, verso il XV secolo, si aprì un’era di decadenza per l’eremo di Butrio. Nel 1516 papa Leone X unì l’abbazia a quella di San Bartolomeo in Strada di Pavia. Nel 1543, gli ultimi monaci dell’ordine degli olivetani lasciarono l’eremo per trasferirsi nell’Abbazia di San Pietro di Breme. Da dove, già nell’anno precedente, vi erano giunti i pochi monaci benedettini rimasti. A Butrio rimase solo un sacerdote. Nel 1595 la chiesa di Sant’Alberto fu eretta a parrocchia. Seguirono tre secoli di quasi abbandono totale, durante i quali il monastero e parte della torre, furono distrutti.
Nel 1810 le leggi napoleoniche condussero alla soppressione e requisizione governativa dell’eremo che finì nell’oblio più totale. Solo alcuni decenni dopo, grazie a tre studiosi locali, tornò a conoscere parzialmente la luce.
Pubblicazioni salvifiche
Il primo fu il canonico Giuseppe Bottazzi con la pubblicazione dei “Monumenti dell’archivio capitolare” nel 1837. La sua opera riportò un po’ di attenzione sull’abbazia e sui suoi tesori, purtroppo andati dispersi. Tra cui i 1800 volumi della biblioteca, ancora presenti ai primi del secolo XIX. Fu la volta poi del Conte Antonio Cavagna Sangiuliani, che tentò una ricostruzione storica nel volume “Dell’Abbazia di Sant’Alberto di Butrio” stampato a Milano nel 1865; riportando tutti i documenti d’archivio che aveva a disposizione.
Il terzo fu il canonico Vincenzo Legè che pubblicò nel 1901 la monografia “Sant’Alberto Abate e il suo culto”. Riassumendo e integrando gli studi del Sangiuliani, con altre indagini da lui condotte meticolosamente negli archivi della diocesi, con la collaborazione di studiosi stranieri.
Ripartenza
L’eremo riprese vita a partire dal 4 giugno 1920 quando si decise di affidarlo a don Luigi Orione. Questi, vi istallò uno dei rami del suo ordine, gli “Eremiti della Divina Provvidenza”, fondato nel 1899. Il più noto degli eremiti presenti fu frate Ave Maria, al secolo Cesare Pisano nato a Pogli di Ortovero (Sv) nel 1900, che a dodici anni perse la vista per una fucilata sparatagli al volto.
Ventenne, fu accolto da don Orione e inviato dopo due anni all’eremo. Vi rimase dal 1923 al 1964, anno della sua morte. Condusse una vita di grande valore spirituale per preghiera e penitenza in odore di santità, con tanta gente che accorreva per vederlo e per ascoltare le sue prediche. La sua salma riposa in una piccola cripta dell’eremo, è meta ancora oggi di pellegrini. Attualmente è venerabile e si attende la sua beatificazione.
La campana martinella
Tra le tante curiosità e storie che aleggiano sull’eremo c’è quella della campana martinella. Sul campanile dell’abbazia di Sant’Alberto di Butrio risuona infatti la martinella. Campana che posta sul Carroccio e chiamò a raccolta la “Compagnia della morte”, durante la battaglia di Legnano, tra la Lega Lombarda e l’imperatore Barbarossa. Storia documentata dallo storico Fabrizio Bernini che ha ricostruito l’itinerario della campana, custodita inizialmente dal marchese Obizzo Malaspina; nel suo castello di Zucchi in Val di Nizza.
Oggi
Attualmente l’eremo è visitabile ed è composto dalla chiesa parrocchiale di Santa Maria e tre oratori comunicanti tra di loro. Il primo dedicato a Sant’Antonio si trova nella porta d’ingresso; nella navata di sinistra troviamo la cappella del Santo Santissimo; in quella di destra vi è l’originaria chiesa di Sant’Alberto (XII secolo), in cui sono conservate le reliquie del santo. Qui, un ciclo di affreschi raffigurano il committente Bertramino Malaspina.
Tutti gli affreschi presenti nell’eremo hanno una caratteristica: sono stati realizzati da giugno a settembre 1484. Fino a poco tempo fa, inoltre, erano considerati opera dei fratelli Boxilio di Castelnuovo Scrivia. Ma è molto più probabile che l’autore sia stato un monaco pittore che preferì restare nell’anonimato.
Gli studiosi suppongono che molti affreschi, specialmente quelli dipinti nella chiesa di Santa Maria, siano andati distrutti nel corso dei secoli a causa di alcuni sconsiderati restauri.
Nel 1973, per onorare il nono centenario della morte di Sant’Alberto, la chiesa di Santa Maria è stata restaurata e riportata com’era all’origine.
Oggi nell’eremo sono presenti sei frati, che celebrano messa e consentono di passare un po’ di tempo in relax, usufruendo dell’area picnic presente nella zona.
Patrimonio gastronomico
All’interno dell’eremo si trova un angolo dove si possono acquistare i prodotti dei frati: come miele, propoli, sciroppi, prodotti officinali, unguenti, tisane, liquori,… Il cui ricavato contribuisce alla sussistenza della struttura.
Nei secoli la presenza e l’opera del monastero è stata fondamentale anche per il patrimonio gastronomico dell’Oltrepò pavese conservando e sviluppando produzioni locali. Dai formaggi vaccini e caprini, alle conserve di frutta, al miele, alle castagne con i derivati, fino alle erbe selvatiche.
Particolare merito fu quello della conservazione delle carni per mezzo del sale. La val Staffora infatti ha un clima perfetto per la produzione e la stagionatura degli insaccati. E qui i longobardi introdussero un programma economico volto a stimolare l’allevamento dei maiali e la produzione del tipico salame. Gli autoctoni appresero da questo popolo l’arte della norcineria e l’affidamento divenne prerogativa dei monaci che abitavano i monasteri e le abbazie; molto diffuse nell’Oltrepò Pavese. Proprio a essi si deve la ricerca della giusta combinazione degli ingredienti per produrre il salame, molto simile a quello di oggi.


Sito ufficiale: Eremo di Sant’Alberto di Butrio