Un racconto che propone un viaggio che parte fra le pieghe dell’abito tradizionale femminile, indossato nei paesi francoprovenzali di Ferrera Moncenisio, Giaglione, Novalesa, Venaus e nei confinanti borghi della Maurienne: la Savoiarda, e giunge al termine fra le antiche usanze matrimoniali dei loro abitanti.
Seusca e Marc
Seusca (Francesca) lasciava in quel momento le braccia della madre e di Iana (Marianna), la sua madrina di battesimo.
Il campanile di Giaglione suonava dieci rintocchi.
Le amiche se la contendevano l’un l’altra, invitandola a lasciarsi ammirare. Lei, timida, nascondeva, fra le mani, il volto arrossato, poi chinava la testa, abbassava lo sguardo e sorrideva.
Vestiva, come si usava, su quei monti ai confini con la Maurienne francese, per il giorno del matrimonio: alla moda savoiarda.
La sua bellezza ordinaria era accresciuta dall’impazienza mista al timore e al turbamento, dalla gioia alternata alla preoccupazione, che accompagnavano ogni futura sposa.
I capelli erano lunghi e neri, spartiti in due al centro della fronte e raccolti in una crocchia pronta a scomparire sotto la cuffia di velluto a strisce verticali, in varie tonalità di marrone. La stessa calzata dalla nonna e dalla mamma per le loro nozze, solo rinnovata nel pizzo nero, cucito sul davanti a incorniciare il viso, nel fiocco semi piatto applicato alla base della nuca e nei nastri di seta colorata che il suo Marc (Marco) le aveva regalato quattro mesi prima, in occasione del fidanzamento. Li aveva acquistati a Lione, dove, durante l’estate, libero dall’insegnamento nella scuola giaglionese, era impiegato come contabile in una famiglia signorile.
Al collo un nastro di velluto nero, legato, sotto la nuca, in un fiocco, da cui pendeva, sul petto, una croce d’oro con le estremità a fioroni: anch’essa dono, con gli orecchini, del suo sposo.
Indossava un bell’abito in lana e seta marrone, lungo fino ai piedi: spalle, all’attaccatura delle maniche e, vita, sul retro, percorse da un’infinità di pieghe che lo rendevano importante. Corpino sancrato, chiuso, sul davanti, da un’interminabile fila di gancetti da cui fuoriuscivano le punte di un candido pizzo dentellato, lavorato all’uncinetto. L’abbottonatura, come quella degli stretti polsini, chiusi da minuscoli bottoni, era arricchita da una bassa passamaneria e da perline colorate.
Un grembiule di seta, sempre marrone, a fiori, le ricopriva gran parte della gonna dell’abito: da fianco a fianco e ne era di pochi centimetri più corto. Accentuava ancora di più, camminando, l’ondeggiare delle pieghe del vestito. In vita era arricchito da un nastro in noirè di seta, sempre dello stesso colore, legato in un pomposo fiocco i cui lembi svolazzavano liberi.
Sulle spalle la madrina le aveva appuntato, con spille a testa bianca, uno scialle in seta. Lo aveva piegato a triangolo e poi accomodato con tre pieghe ben visibili. La mamma nel frattempo lo fermava, con altre tre pieghe per lato, sul davanti del corsetto, usando spille eguali.
Lo aveva ricamato lei stessa nelle lunghe veglie invernali: un quadrato color nocciola su cui aveva disegnato, su due lati consecutivi, un semis di ramicelli, abbondante di fiorellini e boccioli, foglioline e qualche grappolino di uva: sarebbe stato un tripudio di verdi più o meno chiari, di azzurri e blu nelle varie tonalità, di viola e bianchi. Lo aveva avvolto nella carta per non sporcarlo, lasciando scoperti solo quei centimetri necessari a coprire le ore di lavoro quotidiane. Milia, (Emilia) la sua amica del cuore, ne aveva frangiato i quattro lati annodando le frange a mano. Indossato, la frangiatura le ricadeva sulla schiena all’altezza della vita e, sulle braccia ai gomiti.
Proprio lei, ora, le stava rimboccando, anteriormente, le punte raccolte sotto la cintura del grembiule.
Le legò anche, sotto l’orecchio destro, in un complicato e stretto fiocco, i nastri della cuffia.
Alcuni rumori e un vocio sempre più percepibile, provenienti dal cortile, annunciavano l’arrivo dello sposo con il corteo di amici e parenti, capeggiati dal fido Guestin (Agostino), il marito di Milia: orecchie a sventola nascoste sotto il cappello e a cavalcioni in spalla il loro primogenito Titin (Battista), felice di quell’allegro trambusto.
Il crocchio intorno alla giovinetta si sciolse. Le donne uscirono per vedere Marc, commentare e spettegolare sulla sua vestimenta (giacca e pantalone) di grosso panno scuro, cucita per l’occasione: si sprecarono le congetture sul costo.
Sotto indossava una camicia di un bianco candido, non di ruvida canapa tessuta al Mulè, la frazione di Seusca, ma di un bel cotone, acquistata a Susa. Al collo aveva un fazzoletto legato a cravatta e ai piedi un paio di scarpe nuove, ma non quelle confezionate da Fredo (Alfredo), l’artigiano tuttofare del paese, queste erano di foggia cittadina: nere, morbide e lucide.
Seusca scese le scale di casa e il padre l’accolse sull’uscio per affidarla al suo promesso.
Si avviarono alla chiesa per la celebrazione religiosa.
Entrando, lo sguardo di lei si perse, chissà perchè, a terra, lungo i giochi di luce e ombra che si rincorrevano sul pavimento. L’odore dell’incenso le favorì un ritorno all’infanzia, alle preghiere recitate, inginocchiata, dopo il Catechismo: poi si correva fuori a giocare sul sagrato ai quattro cantoni e Marc prendeva sempre le sue parti nei piccoli bisticci che, puntualmente, sorgevano in quella compagnia di monelli. Il ricordo le infuse gioia e pace interiore.
Vennero benedette le fedi e se le scambiarono.
Era il 5 marzo 1907: quella data sarebbe stata incisa per sempre sugli anelli che portavano al dito.
Intanto, in quella domenica mattina, sulla facciata dell’osteria, pendevano rami di lauro e noce a cui erano stati intrecciati, per ulteriore abbellimento, mazzolini di fiori. Un uguale ornamento, sistemato ad arco, ne incorniciava l’ entrata.
Sulla piazzetta antistante gli uomini, reduci dalla funzione matrimoniale, erano raggruppati in capannelli: sembravano discutere animatamente. Alcuni portavano l’orologio, i più abbienti d’oro, appeso a catene allacciate ai primi bottoni della giacca, o alla cintura dei pantaloni. Qualcuno passava da un gruppo all’altro posando famigliarmente le mani sulle spalle degli amici.
Le donne facevano altrettanto, solo più compunte all’altro angolo. Il pettegolezzo del momento riguardava la ricca e vedova cugina della sposa. Da più giorni il suo calesse si vedeva fermo, per ore, innanzi al convento delle Terziarie a Susa: tutte erano convinte del suo prossimo ritiro a vita monastica.
Con il sopraggiungere di Seusca e Marc le conversazioni si troncarono, i gruppetti si sciolsero, tutti si diressero loro incontro. Marc distribuiva strette di mano e sorrisi, chiamando ognuno per nome. Accomunò in un unico abbraccio i suoi tre compagni più fidati. Ricevette pacche affettuose da un omaccione grosso e gioviale: lo zio fornaio. Viseun (Vincenzo), il cognato e ricco oste di Giaglione, gli si inchinò cerimoniosamente. Per le nozze, del fratello di sua moglie Maria, aveva sacrificato il vitello migliore della stalla, un ben nutrito maialino e, anche alcuni ruspanti polli non razzolavano più sull’aia.
Seusca era attorniata dalle donne.
Ora i due stringevano altre mani e gli uomini si levavano il cappello all’avvicinarsi della sposa. Marc le presentò i parenti giunti appositamente dalla Francia: la zia Dzasinta (Giacinta), sarta a Aix les Bains e il marito. Era stata la donna a spedire, alla madre, la seta occorrente per confezionarle scialle e grembiule. Lo zio, impiegato nelle ferrovie francesi, era un uomo alto e elegante, lenti appoggiate, in avanti, sul naso e una folta barba a nascondere un viso leggermente butterato da un vaiolo giovanile.
Seusca fece un passo in avanti e tese ad ambedue le braccia.
Negli stessi momenti Maria, accaldata e rossa in viso, tutta pendenti e dorini in oro e jais, comparve in cima alla scala del locale. Con le mani sui fianchi richiamava, energicamente, gli invitati a entrare e la gente prese a salire. Giù Viseun ripeteva affabilmente l’esortazione. A un tratto la scala fu gremita di persone: adesso erano tutti impazienti di pranzare.
Appena i due giovani comparvero nella sala due fisarmoniche e altri strumenti a fiato diedero loro il benvenuto. Regnava una grande confusione, aumentata dalla musica e dovuta a chi cercava di sedersi accanto ai parenti e amici più cari.
Ragazzini e giovani si sistemarono all’aperto, sotto il pergolato: la giornata insolitamente calda per il periodo lo permetteva.
Seusca e Marc si accomodarono al posto d’onore. Accanto a lei i genitori di lui, vicino a Marc quelli della sua amata e poi gli zii materni di entrambi: il Sindaco di Giaglione e il Vescovo della Diocesi. Di fianco al prelato Don Paolo, il Curato del paese.
Si iniziò con salami e ventresca (pancetta), uova e acciughe al verde, accompagnate dal burro, peperoni in bagna caoda e poi vassoi di agnolotti ripieni di salsiccia, arrosto e cavoli: Maria li aveva tagliati personalmente con un bicchiere perchè fossero più grandi.
Si mangiava e si mesceva il vino a destra e a sinistra, per il caldo qualcuno si asciugava il viso con il tovagliolo.
Non si parlava quasi più.
Furono serviti gli arrosti e poi la semola dolce con le verdure impanate e fritte, i filoni, le frittelle di cervella e altre frattaglie, la salsiccia e le frittelle di mele con gli amaretti bagnati nel latte, munto quel mattino, e passati in padella. Seguirono i formaggi: corpose tome stagionate e fresche. Si portavano via i fiaschi vuoti di avanà e barbera sostituendoli con quelli pieni.
I suonatori, fra una portata e l’altra, allietavano i commensali e qualcuno, più burlone, si alzava accennando a passi di danza.
Sotto la pergola di viti ripresero il vocio assordante e le risate della gioventù. Le mani afferravano i bicchieri per cozzarli fra loro e brindare, richiedendo baci a Seusca e Marc ora per questo, ora per quell’altro motivo e reclamandone la presenza in mezzo a loro.
Gli sposi si erano alzati e si muovevano fra gli invitati raccogliendo i complimenti per il banchetto e i buoni auspici per la vita matrimoniale.
I padri avevano raggiunto le tavole dei rispettivi parenti. In piedi, non perdevano una parola di quanto si diceva e gongolavano con i pollici infilati nelle tasche dei pantaloni. Avevano un’aria tronfia e beata assieme: tutti in quella sala erano sazi e contenti.
Le voci si facevano avinazzate, l’odore del vino, unito a quello stagnante delle pietanze e della branda (grappa), che a fine pasto, con genepy e genziana, aveva fatto la sua generosa comparsa, diventava nauseabondo.
Seusca, con le donne, si era rifugiata al limitare del pergolato a godersi l’ultimo sole della giornata.
I bambini sbocconcellavano ancora fette dorate e ricoperte di zucchero della tipica focaccia dolce, impastata con farina e uova, latte, burro di giornata, cotta in abbondanti forme nel forno del paese: anche lo zio di Marc non si era risparmiato.
Gli uomini erano scesi sotto il fico, parlottavano attorno al novello sposo, scambiandosi pacche sulla schiena e versandosi, ancora, un bicchiere di vino: ogni volta si dicevano che era l’ultimo.
Ormai si era fatto tardi.
Seusca e Marc si avviarono verso la loro casa, quella della famiglia di lui, accompagnati da tre suonatori, camminando al centro delle donne.
Si levarono le prime note e le giovani si misero a cantare, Milia e Maria presero sottobraccio Seusca.
Gli uomini seguivano in fondo, continuando a chiaccherare a gruppetti. Ogni tanto qualcuno faceva la spola, tra gli uni e gli altri, sempre con un fiasco in mano.
Arrivati entrarono tutti quanti nel cortile.
L’ottavino, il trombone e la fisarmonica ripresero a suonare al buio, poi dall’interno qualcuno portò una lucerna.
La mamma di Marc si fece avanti con un mestolo in mano e lo porse a Seusca: le passava il segno del comando della casa. Lei lo prese e abbracciò la donna.
La musica era terminata, rimaneva l’abbaiare di un cane in lontananza, il muggire di una mucca che, nella stalla, attendeva di essere munta e l’erba che frusciava alle lievi folate del vento che scendeva dal Moncenisio.

E come viverlo questo evento, calati nell’atmosfera di altri tempi, bellissimo racconto.