In quell’inizio autunno del 1737 l’intero Giaglione è preso dalla frenesia per i preparativi della Représentation de la mort et Passion de N.S. Jesus Christ e la Representasion de la Vengeance sur la Passion de nostre Seigner Jesu Christ. La messa in scena richiederà tre giornate: quelle festive della Pentecoste del 1738, a partire dalla domenica 25 maggio. Il tempo stringe.

Si è così deciso per onorare un antico voto, fatto dalla comunità per “discassiar”, con l’ausilio di Dio, la “camola” che infestava le vigne. Il Notaio Andrea Berto, istigatore del Sindaco per ogni cosa che avviene in paese, dice che sia antecedente al 1659: la sua nobile casa a San Giuseppe custodisce documenti risalenti anche al 1500.

Negli ultimi anni il problema si è ripresentato con più vigore: rischia di danneggiare i vigneti in modo irreparabile. Bisogna rimboccarsi le maniche e intevenire.

Una domenica di luglio, di quell’anno, le Autorità avevano radunato il popolo, all’uscita dei Divini Uffizi, nel “solito luogo”, ossia sulla piazza antistante la cappella di San Lorenzo: ci si doveva armare di buona volontà, riprendere le vecchie tradizioni senza altro indugio, ossia riniziare a festeggiare la Pentecoste come i “vecchi” avevano deciso.

Qualcuno, come Tselestin (Celestino), il calzolaio, dava la colpa alla Confraternita: il padre gli aveva sempre detto che erano loro a dover organizzare la Rappresentazione, ma quelli, ormai, a Pentecoste non distribuivano neanche più il cibo ai poveri e non pagavano nemmeno il soldo per ogni confratello morto nell’anno. Don Giacomo, il loro Capellano, era da un anno che attendeva di essere remunerato. Altri come i fratelli “Gasquet”, Guestin (Agostino) e Albin (Albino), i maggiori produttori locali di vino, lo vendevano anche in Alta Valle e in Savoia, ritenevano il voto una fanfaronata: bisognava affidarsi a “quelli che ne sapevano di più” per salvare il loro Avanà. Il Parroco, Don Michele, al solo sentirli alzava lo sguardo al cielo e si segnava.

Alla fine la pressione del Sindaco, ma soprattutto il sermone infervorato del Curato, che invitava tutti ad andare a rivedere i dipinti sulle pareti esterne della cappella di Santo Stefano, per avere ben chiaro cosa succedeva ai peccatori, ebbero la meglio: subito fu stilato un piano di lavoro serrato, da rispettare ad ogni costo e fu fissata la taglia, la tassa per far fronte alle spese.

Si affidò il compito di ricopiare i sei libri dei due Mystère, custoditi gelosamente in Comune, ormai troppo lisi, ad un Frate dell’Alta Valle che aveva accettato un compenso parte in denaro e parte in vino: i Gasquet erano stati invitati a fare la loro parte.

Il notaio aveva offerto lui la “carta grande” necessaria per la scrittura e la pelle per foderarli, il Comune avrebbe fatto fronte all’acquisto di quella necessaria per i vari cayeti, i copioni, da distribuire agli attori che sarebbero stati più di un centinaio.

Il Monaco, coadiuvato da Don Michele, dal farmacista, dal Notaio Berto e dal figlio di quest’ultimo, si sarebbe assunto anche il compito di ricopiare le singole partiture. Il tempo era tiranno: gli uomini e le donne che sapevano leggere avrebbero approfittato delle lunghe veglie invernali, nelle stalle, per imparare o ripassare la propria parte mentre aggiustavano una zappa o un rastrello, oppure filavano, cucivano il corredo o ricamavano uno scialle da indossare alla festa patronale di San Vincenzo. Gli altri dovevano avere il tempo di mandare a memoria le proprie battute aiutati sempre dal Parroco, dai Berto, dal farmacista e dal maestro: alcuni di loro li avrebbero assistiti anche in scena, nascosti dietro le quinte o posizionati sotto il palco, pronti a suggerire.

A metà settembre i libri erano stati approvati dalle autorità e il sacrestano a dorso della mula di Don Michele si era recato a Torino a ritirarli appunto “admessi, approvati et rimessi”.

Il Curato e il Frate si sarebbero anche occupati della regia: viste le scintille fra i due, fin dai primi contatti, ci sarebbe stato da divertirsi. Don Michele, infatti, aveva addirittura rifiutato di ospitarlo in canonica: non capiva proprio perchè andare a cercare un copista altrove quando c’era lui che, poi a dirla tutta, avrebbe potuto rinnovare anche alcune parti dei Libri e rinfrescare certi dialoghi. Erano due-tre anni che ci pensava, aveva già scritto e riscritto scambi di battute, commenti e monologhi: il Sindaco lo sapeva bene, d’altra parte era stato lui, aiutato dal Notaio a cui il primo cittadino non sapeva dire di no, a spingerlo, ovviamente per il bene della comunità, a mettere in scena i Mystère. Proprio non si aspettava un tiro così birbone.

Intanto, lo stesso Sindaco aveva ottenuto, già fin dai primi di settembre, tutti i permessi, civili e religiosi, necessari. Aveva dovuto sacrificare alla causa qualche pollo, allevato con cura dalla moglie, uniti a un quarto di bue e per questo si era sentito le reprimende, per una settimana, tutte le sere prima di addormentarsi, proprio dalla signora Seusca (Francesca) mentre era intenta a contare e infilare in una calza, destinata a sparire subito dopo in un incavo nascosto del comodino, i soldi derivanti dalla vendita di ortaggi, latte, burro, formaggi e uova. Il discorso era sempre lo stesso: avevano imposto la taglia, allora usassero quel denaro senza che a rimetterci fossero quelli come lei. Una cosa doveva essere chiara: a Natale non ci dovranno essere lamentele se sceglierà tra apparecchiare gli agnolotti con il ripieno di arrosto o due piatti di carne. Certo per il figlio che tornerà in licenza sarà un magro modo di accoglierlo! A San Vincenzo, poi, la fouiàsa (focaccia dolce) per omaggiare Curato e Notaio del paese, Governatore, intendenti, comandanti militari e compagnia cantante giù a Susa non è affatto garantita: si farà se avanzeranno le uova dalla vendita e dalle sue necessità personali. Lei non è avezza ai miracoli: avrebbe dovuto pensare alle conseguenze prima di fare il generoso a loro spese. Il pover’uomo aveva dovuto aggiungere, a una croce in oro Janette, ordinata per lei al miglior orafo di Susa, in vista del loro venticiquesimo anniversario di matrimonio, uno scialle in seta finemente ricamato e i nastri ad esso abbinati che sarebbero andati a ornare la cuffia savoiarda, provenienti tutti da una seteria di Lione, per fare ritornare la pace in famiglia. Seusca, infatti, alla prossima ricorrenza della Madonna del Rosario, la prima domenica di ottobre, sarebbe stata eletta Priora di San Vincenzo per la borgata di Sant’Antonio: con il vestito, in lana-seta operata, che si stava cucendo abbellendolo con passamanerie in velluto e perline verdi-azzurre, acquistate a Torino tramite la signora Berto, il grembiule tagliato da una pezza di seta marezzata proveniente dalla Savoia e finito di rimettere a nuvo la cuffia, dopo il bagno in cera d’api e la canettatura dei pizzi, sarebbe stata la donna più ammirata del paese: la Prioùra pi bula (Priora più elegante) degli ultimi tempi.

Nel mentre il Sindaco risolveva i suoi guai famigliari, i collaboratori si erano messi alla ricerca, in Alta Valle, del maestro di musica trovandolo ad Exilles assieme al tamburino, che già accompagnava gli Spadonari nelle loro danze: il signor Deyme si sarebbe preso cura del piccolo gruppo di suonatori già a disposizione, Fredo, Viseun, Tantin e Marc (Alfredo, Vincenzo, Costantino e Marco) con le loro trombe e corni, di Pietro con il suo tamburo e di qualcun altro ancora da convincere.

Era stato scelto anche il luogo, all’aperto, accanto alla chiesa: una sorta di anfiteatro naturale. Qui gli attori sarebbero stati in scena dall’alba al tramonto: al mattino per la Passione e nel pomeriggio per la Vendetta. Un impegno immane, ma, come sempre, destinato ad essere ampiamente ripagato dalla grossa affluenza di spettatori da tutte le contrade vicine e anche dalla Maurienne: arriveranno sicuramente i parenti e forse gran parte dei compaesani dei due pittori, padre e figlio, già ingaggiati per lavorare alla decorazione del palco. Hanno patuito, anche loro, oltre a vitto e alloggio assicurati durante i lavori e al materiale necessario per le pitture, un compenso in denaro e vino: questa volta i Gasquet non ne hanno voluto sapere di essere accondiscendenti. Il Sindaco vuole ancora il loro Avanà, lo deve pagare, fino all’ultima goccia, a prezzo corrente, altrimenti, avanti di questo passo, finiranno di mettere sulle loro tavole la piquéta (vino scadente) e non potranno nemmeno più dissetare i loro operai con il vin petseut (vinello), ma dovranno dargli da bere direttamente il vin batià o la poumàda (vino con acqua e vino di mele). È ora di assoldare un esperto che salvi i vigneti perchè i “Pater Noster” e le “Ave Maria” da sole non sono sufficienti.

Giungeranno a Giaglione pure i soliti due-tre Savoiardi, venditori di cibarie, sempre presenti alle ricorrenze paesane: ben vengano, la loro tassazione aiuterà a rimpinguare le casse.

Tutto questo se il tempo al Moncenisio non farà troppo i capricci.

Ai primi di aprile del 1738 si andrà nei boschi per tagliare i malesò necessari per costruire il palco: si è deciso di meravigliare tutti, misurerà 100 passi di lunghezza e 9 di larghezza (65-70 metri per una profondità di 6). Nessun paese ha mai osato tanto e saranno necessarie anche delle assi per allestire la Torre di Pilato e la città di Gerusalemme previste nella Vendetta: sono già state ordinate nel vicino Venaus e l’accordo prevede un pagamento in parte con denaro e in parte con “8 mezze di pane di segala” fornite da Nadin (Bernardo), il fornaio. Il suo tono baritonale si eleva ad ogni funzione in chiesa, per questo aiuterà Don Michele nell’allestimento dei canti, come il Silete-silete, degli Angeli. Interpreterà, inoltre, il ruolo del Prologo e dell’Epilogo, che aprono e chiudono ogni giornata, in entrambi i Mystère. Dodici lunghi monologhi: quattro ogni giorno, due al mattino e altrettanti al pomeriggio. Il padre, il nonno, il bisnonno e altri prima di loro hanno interpretato quei ruoli: i Trameisa sono insostituibili in quella parte. Il papà, in occasione dell’ultima Rappresentazione, quella del 1699, lo aveva voluto sempre con sé durante le prove, seppure fosse ancora un bambino. Impastando, infornando e sfornando avevano ripetuto, per mesi, la parte. Alla domenica pomeriggio, dopo i Vespri, si erano esibiti di fronte alla famiglia riunita attorno al camino provando inchini e saluti da indirizzare al pubblico, camminate e mosse varie, finendo con una bella tazza di panna, ricavata dal latte munto al mattino, per gli adulti montata con un biccherino di èivavitò (acquavite) distillata in casa, e una bella fetta di fouiàsa. A quella Pentecoste il padre gli era sembrato un attore professionista, come quelli che applaudiva a giugno alla fiera di Susa: alto e magro era stato impeccabile nel muoversi avanti e indietro sul palco, usando abilmente il cappello, tenuto in mano, per sottolineare i vari momenti dei suoi discorsi, suscitando sui volti dei presenti, con i suoi repentini cambi di tono, stupore, ilarità e riflessione. Alcuni giorni dopo gli aveva mostrato due quadernetti rilegati a nuovo: i copioni che gli lasciava in eredità per le future Rappresentazioni. I Trameisa non avevano mai avuto bisogno delle partiture distribuite dagli organizzatori.

Nadin aveva una ragione in più per essere generoso e felice di recitare: ringraziare “Nostro Signore” per il figlio che Viseunda (Vincenza) gli aveva partorito dopo tre femmine: Giaglione aveva così assicurato il nuovo fornaio e un altro Trameisa per i suoi Misteri.

Litse (Felice), il falegname del borgo, un abile intagliatore con una bottega frequentata anche da ragazzini e giovani ansiosi di cimentarsi con pialle, raspe, scalpelli e seghe si occuperà di dirigere i lavori di erezione del palco e darà modo ai suoi allievi di mettere a frutto le loro doti. Ha già chiesto di essere affiancato dalmastro da boscho” di Venaus: il fratello Dzulian (Giuliano) che lì si è trasferito, dopo il matrimonio, per assicurare continuità alla bottega del suocero. Oltre al palcoscenico si dovranno costruire anche i sedili per gli spettatori e le “baracche” per le autorità che assisteranno allo spettacolo. Il Notaio Berto e il Sindaco, poi, si sono messi in testa di dotarsi di una “cadrega”, adornata con lo stemma del paese, un gallo, scolpito ben in vista e impreziosita con motivi a forma di grappoli d’uva in onore del patrono San Vincenzo, per trasportare in paese e riportare a casa la moglie del Governatore sia per assistere ai Misteri sia quando, alcuni giorni prima, verrà con il marito alle loro prove, ma soprattutto, a scegliere la posizione e la grandezza, in base agli ospiti di cui vorranno attorniarsi, del loro palchetto.

Nei prossimi mesi si acquisterà anche materiale vario per garantire gli “effetti speciali” durante la rappresentazione e tutto ciò che è necessario all’allestimento. Don Michele chiederà in prestito agli altri sacerdoti della Valle i tappeti da usare come quinte. Quelli della parrocchia non bastano: il Sindaco ne vuole in grande quantità per occultare i retroscena, in particolare le scale che portano al paradiso, posto centralmente al disopra del palco, e per favorire l’uscita degli attori.

Lui e i suoi collaboratori si spingeranno anche fino a Torino, Briançon e Pinerolo per acquistare o affittare altre “tapisserie” necessarie ad arredare la scena.

Grande sfoggio dovrà essere fatto per i vestiti degli attori: non si può badare a spese anche se costeranno un piccolo patrimonio. Certamente non si ha la possibilità di farseli confezionare in proprio: le stoffe e la manodopera, se ci si affida alle sartorie, sono troppo cari e in paese non ci sono cucitrici così abili e numerose. Gli uomini dell’amministrazione comunale, all’offerta di alcune di loro, con a capo la signora Seusca,di rendersi utili per le vesti più semplici, hanno sentenziato che si esse sanno cucire bene la roba (il vestito) e lou fourò (sottogonna), realizzare all’uncinetto li bequeut(i pizzi), ricamare e frangiare gli scialli, arricciare la gonna dell’abito e i grembiuli con lou fris (fettuccia di tela) della Savoiarda, cannettare anche benissimo le pouèintseteus (il pizzo nero) della cuffia, ma questi costumi sono comunque lavori per professionisti, per cui si ricorrerà per tutti, come sempre, all’affitto: questa volta dagli ebrei di Torino.

Tempi duri dinuovo per il Sindaco: Seusca, colpita nell’orgoglio, infuriata gli rimprovera di spendere male i soldi della comunità e gli ricorda l’anedotto tramandato in paese, legato alla Rappresentazione del 1671: un certo Tita (Battista) e i suoi due figli, partiti per la capitale sabauda con tre mule, per il ritorno impiegarono tre giorni perchè erano talmente carichi che loro dovettero procedere a piedi. È sicura che quest’anno succederà lo stesso, vista la loro incapacità: la “gita” a Torino si rivelerà cara e salata.

All’uomo sicuramente costerà quel bel paio di orecchini che sono perfetti per essere indossati sotto la cuffia con tutti i capelli raccolti all’interno: il prezzo per riportare la serenità fra le mura di casa.

Oggi, domenica 29 settembre 1737, è il giorno dell’assegnazione delle parti ai vari attori: i Vespri sono terminati ma nessuno è uscito dalla Chiesa. Il Sindaco si alza dai banchi in cui siede la famiglia Borello, si dà una scossa alla giacca e ai pantaloni in grosso panno scuro, con due dita sistema, allentandolo leggermente, il fazzoletto legato a cravatta e non può fare a meno di abbassare gli occhi e ammirare ancora una volta le scarpe nuove: nere e lucide, le ha acquistate non da Tselestin ma a Torino l’ultima volta che ci è stato per affari della comunità. Dà uno sguardo all’orologio, appeso con una catena ai primi bottoni della giacca, tirandolo fuori dal taschino e poi gongolante si avvia sotto l’altare dove lo attende a braccia conserte e un po’ spazientito il Parroco. Con aria tronfia e beata assieme si appresta a fare un’importante comunicazione: alla Rappresentazione sarà presente, suo ospite, il Sindaco di St-Jean-de-Maurienne, Monsieur Beddat, un commerciante di bestiame in affari con lui. Posticiperà di due mesi il viaggio già programmato per comprare da lui e da altri allevatori della Valle dei capi bovini e ovini. Sarà accompagnato da un disegnatore, dal Vescovo e dal Parroco della cattedrale di San Giovanni: questi saranno ospitati da Don Michele a cui andrà tutto l’aiuto della comunità per risistemare la canonica affinchè possa accoglierli degnamente. Il Prelato è ansioso di assistere alla Rappresentazione: la fama della bravura dei giaglionesi è giunta fino a lui. Monsieur Beddat vuole rendersi conto personalmente di come sarà strutturato il palco: l’allestimento di Giaglione è ritenuto il migliore dell’Alta Valle e della Maurienne e ancora nesuno sa dell’ulteriore ampliamento che aporteranno. Il disegnatore traccerà uno schizzo di tutto.Ogni cosa quindi dovrà essere perfetta, lui stesso sovvrintenderà ad ogni fase della preparazione, occupandosi di ogni dettaglio, anche il più insignificante. Per iniziare ha già apportato un cambiamento: il ruolo del Sot, il buffone, con le sue battute a volte troppo sagaci, quest’anno, come tra l’altro richiesto saggiamente anche dal Curato, sarà sospeso: non si può rischiare di urtare l’animo e la sensibilità dei due Uomini di Chiesa ospiti. Gli spazi di intrattenimento fra una scena e l’altra saranno occupati dalla Danza degli Spadonari: una variazione che potrebbe diventare anche definitiva. In tal caso Giaglione passerà alla storia per aver nobilitato ancora di più i Mystère: sostituire la Danza delle Spade all’ormai poco gradito, da autorità civili e religiose, buffone giungerà senz’altro alle orecchie della Corte torinese e sarà sicuramente gradito. La ripartizione dei ruoli che segue alle sue parole è poco più che una formalità: si ereditano per la maggiore all’interno delle varie famiglie. Queste, ormai, vengono indicate dai compaesani con il soprannome derivante dal personaggio interpretato e tutti ne vanno orgogliosi, anche chi riveste i panni dei “cattivi” o dei meno protagonisti: l’importante è esserci. Eccoli tutti lì, seduti nei banchi. Si procede: i Baina, i Deimo e i Griffon si dividono le solite interpretazioni dei diavoli. Ai Cornalenza appartengono la maggior parte dei suonatori. I Prince vestiranno ancora una volta gli abiti dei Principi. Così tutti gli altri. Unico dubbio il ruolo di Maria. Candidate due sorelle: Guetò (Agata) e Silia (Silvia), figlie di Ioucha (Mariuccia), l’ultima, in ordine di tempo, delle donne della sua famiglia, i Barbamarc, ad aver rivestito quel ruolo. Lavorano entrambe nella bottega alimentare dei genitori. Si deve scegliere: le ragazze, oltre che fisicamente, sono diverse anche per carattere. Guetò bionda, venti anni, colpisce per la dolcezza, ma non si può dire che non sia bella: un volto da bambola, roseo con occhi azzurri, dolci e grandi, una gran massa di riccioli biondi che le ricade sulle spalle incorniciandole il viso. Una bellezza antica che la fa sembrare proprio una Madonna, del Cinquecento. Alta come la sorella, ha un portamento perfetto. Vive per la casa e il lavoro: amministra i conti e si diletta nella produzione di confetture di frutta e preparazioni a base di erbe locali. Ha aggiunto, nella bottega, una spezieria aperta per lo più a pochi intenditori: le persone più facoltose del paese e delle contrade vicine. Di nascosto dai genitori le prepara, consegnandole personalmente, a chi sa averne necessità ma non in grado di permettersele. Silia invece, più giovane di due anni, indubbiamente anche lei bella e pienamente cosciente di esserlo, è decisamente civettuola. Sogna una vita lontano da quelle case e vagheggia un amore fiabesco, non quello che gli può offrire qualcuno dei suoi coetanei: contadini e artigiani, lei dice, privi di istruzione e quasi sempre di educazione. Magra, ma muscolosa, viso delicato su cui spiccano due freddi e luminosi occhi grigio azzurrini, labbra rosee e carnose su una pelle diafana, quasi trasparente, accentuata dalla cascata di capelli neri, ereditati dal padre, che le scendono, sciolti, fino ai reni. Al primo impatto disorienta: appare gelida, ma solo per un istante. In realtà emana simpatia da tuttti i pori: carattere allegro, presenza di spirito, un autentico interesse per il prossimo, sensibilità ma anche sicurezza nell’agire in ogni circostanza. Nessuna delle due è in chiesa: eppure i genitori ne avevano assicurato la presenza. Sindaco e Curato, dopo aver congedato tutti, si recano in bottega. Una cosa accomuna le due sorelle: sono ribelli, si schierano sempre dalla parte dei più deboli. Non che esprimano le loro idee in pubblico: non hanno così tanto coraggio, ma mal sopportano l’eccessivo potere di taluni nobili, la spregiudicatezza di certi aristocratici e notabili, la spocchia di taluni paesani verso i più deboli. Affamate di sapere auspicano l’istruzione obbligatoria per tutti, uomini e donne: unica salvezza dai pregiudizi e dalle credulonerie. L’idea che le si possa paragonare ad un personaggio evangelico, chiunque sia, le turba, figuriamoci Maria. Non è necessaria alcuna scelta fra le due. La tradizione famigliare semplicemente si interromperà con buona pace della mamma, tutta rossa di vergogna e rabbia: dopo secoli i Misteri non vedranno in scena una Barbamarc, dell’attonito Don Michele e del tracotante Sindaco. Non accettano, Maria va trovata fra le altre donne di Giaglione. Il padre, nipote di Titin Gasquet, fiero delle figlie,se la ride in disparte: per lui la “malattia” delle viti ha bisogno di altri rimedi e spendere, come si è previsto, oltre 500 lire per festeggiare degnamente la Pentecoste “servì pareun” (è inutile).

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